
Con “ripiegare su se stessa”, si precisa, non si intende nulla di negativo: semplicemente, la decisione di affrontare la situazione Jerry (e, di conseguenza, del dominio di Rick sulla famiglia) ha cambiato la rotta dello show indirizzandolo verso i propri personaggi, portando ad un’attenzione maniacale verso la vera natura e le motivazioni di ognuno. Con ciò è nata un’annata sorprendentemente introspettiva, che, per quanto si prenda le giuste pause per divertirsi (e tanto), mantiene un cuore scuro e più adulto che mai, sia dal già citato lato della caratterizzazione che da quello di una consapevolezza metanarrativa più sviluppata e diretta del solito. È un po’ un marchio à la Dan Harmon se vogliamo, una ricorrenza che si fa sempre più forte man mano che le sue opere guadagnano sicurezza e seguito nel tempo; ma è anche vero che, rispetto a Community, in questo caso si parla di una crescita più misurata dal punto di vista del rapporto con se stessa (e forse gran parte del merito va al controllo di Justin Roiland su tale aspetto) e invece più pessimista per quanto riguarda i personaggi, il vero e proprio motivo per cui i toni si sono nettamente rabbuiati.

Ovviamente, il perno centrale di questo discorso non può che essere Rick Sanchez, il vero e proprio cuore pulsante dello show, in termini di visione del mondo ma anche – anzi, soprattutto – dei comportamenti che ne derivano. Uno dei più grandi dilemmi associati alla serie è sempre stato connesso alla vera natura di Rick, altalenante tra l’egocentrismo e l’attaccamento verso la propria famiglia, come mostrato soprattutto nello splendido finale della seconda annata; quest’anno tale bipolarismo è stato affrontato di petto, inizialmente con la già citata premiere e poi con una serie di episodi diretti espressamente all’analisi delle vere motivazioni che guidano il personaggio, a partire da “Vindicators 3: the Return of Worldender” (in cui una missione con gli “Avengers” si trasforma in un horror alla Saw, dove il nemico è proprio Rick stesso) per arrivare al genio di “Pickle Rick”, un episodio in cui una trovata di per sé puramente demenziale (e che ha generato un seguito tra i fan quasi fastidioso) diventa veicolo per un’analisi profondissima. Ed è particolarmente toccante, a pensarci, il modo in cui Dan Harmon, lui stesso andato in terapia per una serie di trascorsi personali, sceglie di mettere in scena i problemi e le implicazioni che nascono dal fuggire dalla propria famiglia trasformando il protagonista in un cetriolo, tra una sanguinosa citazione ad Old Boy e l’altra. È emblematico come il discorso pronunciato da Susan Sarandon centri il punto, sottolineando come l’uomo più intelligente dell’universo decida di sfuggire ai propri problemi semplicemente perché si parla di hard work, perché non esistono soluzioni facili, dirette o che gli risultino a portata di mano quanto far crollare un governo o creare un mondo intero per ricaricare la batteria della propria astronave.

Ma è anche con Summer che lo show trova un’alchimia assolutamente in accordo con il nichilismo che lo contraddistingue, dipingendo la teenager in maniera efficacissima e solida: e come esplicitare la gestione del divorzio da parte della ragazza se non con un tuffo nel post-apocalittico, in cui la necessità di sfuggire ai propri problemi (e qui l’eredità di Rick influenza appunto la nipote) si traduce nella ricerca della violenza e dell’eccesso a tutti i costi?

Perché Rick and Morty è una serie densa e stratificata, capace di affrontare una serie di temi potenzialmente immensi evitando costantemente il rischio di sfociare nel banale e nell’esagerazione; ma soprattutto è una serie in grado di farlo senza dimenticarsi di far ridere, di costruire un mondo gigantesco e giocare con il proprio pubblico (ad esempio, rivelando di aver cambiato di nuovo universo dopo aver infastidito degli scoiattoli) per il puro gusto di farlo. È difficile trovare prodotti che riescano a raccontare la ricerca di un senso nell’insignificante e riescano, nel mentre, a non perdere la propria passione nel farlo, il tutto senza perdere un rigore nella costruzione dell’episodio che fa tutt’ora scuola (e si pensa al famoso “story circle” di Harmon).

Ma “Tales from the Citadel” non è solo un riassunto di quello che Rick and Morty è sempre stata; è anche un pezzo nuovo ed inedito del mosaico, con un sapore drammatico ed adulto che non si era mai visto prima, toccato addirittura da tinte di riferimenti politici appena accennati. È, in sostanza, il motivo per cui sarebbe del tutto insensato non aspettarsi grandi cose dal futuro della serie, ancora in grado di ampliare il proprio raggio d’azione senza preoccuparsi di mancare il bersaglio.
La terza stagione di Rick and Morty è un rarissimo gioiello, un esempio di come sviluppare una serie che ha ormai guadagnato un enorme seguito fuggendo costantemente i possibili passi falsi che ne derivano. È un’annata che corre tantissimi rischi, che stravolge la struttura narrativa schiacciando episodi densissimi ed introspettivi ad inizio stagione e sviluppando la trama orizzontale nella settima puntata, lasciando al finale di stagione (in maniera forse meno riuscita di quanto si vorrebbe) il compito di chiudere qualche discorso e deludere le aspettative dei fan più incalliti. È anche, per questi e tanti altri motivi, la stagione più bella e completa dello show, quella che ne scopre l’anima più scura e la sfrutta per far ridere nella maniera più fragorosa possibile.
Voto: 9+
