Questa seconda stagione di The Handmaid’s Tale raggiunge infine un momento topico della sua annata televisiva: con la conclusione del sesto episodio, la vicenda personale di June/Offred entra ancor più al centro di un racconto generale che avrà di certo sviluppi ed evoluzioni profonde e prolifiche di novità.
In verità, con l’eccezione dell’esplosiva conclusione di “First Blood”, sia questo episodio che “Seeds” si sviluppano prevalentemente in un senso più attento ai singoli personaggi e alle proprie difficoltà. L’attenzione ad una narrativa generale sull’intera Gilead era stata messa da parte (ma d’altronde non ha mai formato il nucleo principale del racconto) in favore di uno sguardo più intimistico, ma sempre a fuoco, sulle diverse personalità in campo; ed è proprio il loro modo di interagire a creare il grosso del piacere della visione.
È dal rapporto June/Offred e Serena Joy che si possono capire moltissime cose sul trattamento che questa serie riesce a dare al mondo femminile. Nonostante, infatti, alcuni temi sul ruolo della donna siano più urlati e per questo, pur essendo molto efficaci, non altrettanto eleganti, ben più potenti sono i commenti che possono sorgere se al centro poniamo il rapporto tra le due donne, le loro dinamiche, la loro impossibile relazione. Ciò che funziona è che nessuno è davvero un puro carnefice, ciascuno è, a suo modo, anche un po’ una vittima. Ed in attesa di lanciare uno sguardo al passato di Aunt Lydia, che sarà indubbiamente interessante, con “First Blood” possiamo assistere ad alcuni momenti fondamentali della vita precedente di Serena, la sua personalissima partecipazione alla formazione di questo nuovo mondo e lo stallo nel quale si ritrova adesso. Andiamo per gradi.
Dal ritorno di Offred all’interno della propria casa, le cose per Serena non sono state affatto facili: non solo perché avrà un figlio che ella stessa non potrà percepire né sentir crescere dentro di sé, ma soprattutto perché colei che deve funzionare come incubatrice non ha alcuna intenzione di comportarsi da oggetto inanimato; persino quando lo fa, quando Offred prova a comportarsi secondo tutte le regole, Serena è ugualmente insoddisfatta dal suo comportamento. In altre parole, la Moglie non ha idea di quel che vuole, e non riesce ad esprimere la sua insofferenza se non attraverso costanti e continui atti di cattiveria che alterna a momenti di tenerezza con una umanità di cui forse è persino spaventata. I suoi tentativi di formare un’amicizia con June partono da un punto di partenza malato, che vorrebbe la costruzione di qualcosa a partire da un rapporto impari e che non è certo destinato a durare. Serena, ingabbiata in una vita che lei stessa ha contribuito a costruire, non riesce a imbrigliare la propria stessa vitalità, quell’energia che anni prima l’aveva resa ardente sostenitrice delle proprie politiche, anche se questo aveva voluto dire affrontare a viso aperto i propri detrattori (ironia straordinaria, tra l’altro, il lamentarsi di non poter esprimere liberamente l’opinione che le donne non debbano più esser libere, con una proiezione sulla nostra contemporaneità quasi spaventosa). Adesso, però, Serena si ritrova a dover cucire, a badare alle piante, a dover gestire relazioni di pura apparenza e a dover chiedere al marito il permesso per ogni cosa.
Sull’altro versante, June è travolta dalla sensazione di aver perso, dall’incapacità di combattere dopo il clamoroso e doloroso fallimento che è stata la sua fuga, a cui non è nemmeno stato dato l’onore del riconoscimento. “Seeds” è tutto basato sul suo arrendersi temporaneo, su quel volersi lasciar andare ad un destino che si palesa attraverso le perdite di sangue di cui non comunica l’entità. Sarà solo il risvegliarsi in una sala d’ospedale, viva ed ancora incinta, che le permetterà di ritrovare se stessa e capire fino in fondo le proprie necessità. L’intero episodio sancisce la resurrezione di una donna che trova nella forza del proprio figlio non ancora nato quella forza di cui si era privata: la sua voglia di rialzarsi è ciò che le permette di affrontare ancora una volta Serena e tutte le falsità e le ipocrisie di cui la loro vita è ammantata. Nella loro danza d’avvicinamento e di improvviso rifiuto, June non può e non vuole lasciarle dimenticare che la priorità nella sua vita è Hannah, la figlia di cui ha perso le tracce e che l’altra donna ha già minacciato una volta. La speranza in una “decenza” che non arriva è il momento in cui la maschera di finzione e circuizione che le coinvolge deve esser fatta cadere definitivamente: June non ha alcuna intenzione di essere Offred fino in fondo.
June non è la classica vittima, Serena non è la classica carnefice: ciascuna di loro è molto più di quello che si vede e la loro complessità è celebrata e confermata dalla serie stessa che del ruolo femminile ha fatto il centro della discussione, ma anche il suo carburante da declinare in numerosissime sfumature, l’una più ricca dell’altra. Le donne della serie sono madri, schiave, incubatrici e premi: ai migliori servitori dei Comandanti e della Repubblica vengono infatti date in dono delle mogli (che ricevono l’anello ancor prima d’esser viste in volto, tanto la singola persona è del tutto secondaria), il cui scopo è la soddisfazione del marito e la generazione della prole, il momento più alto della loro essenza in quanto donna. La profondità della solitudine di questi personaggi – tutti, compresi gli uomini, paiono afflitti da schemi e strutture che li lasciano e li abbandonano alla loro solitudine – è espressa dal costante e vuoto formulario di saluti e di frasi fatte che esplodono in tutta la loro ipocrisia laddove si pretende di voler uscire dagli schemi preimpostati: si veda l’assurdità dell’incontro (sorvegliato) fra Ancelle, in cui la finzione di una comunicazione quotidiana, a mo’ delle loro passeggiate, porta Serena ad interagire con la donna a cui è stata amputata la lingua proprio per la propria libertà di parola. Anche gli uomini, che in verità hanno un ruolo un po’ defilato (ma è un bel cambio di prospettiva) devono sottostare a delle regole che li vogliono dei privilegiati, a patto che si uniformino alla massa: e dunque senza attività sessuale con la propria moglie il rischio di essere tacciati per “traditori del genere umano” è troppo grave per essere ignorato.
Se l’arrivo di Eden funziona anche per generare nuove tensioni all’interno della casa, è con “First Blood” che lo sguardo si amplia sensibilmente e l’azione kamikaze finale è l’apripista a quello che sarà, ne siamo certi, un nuovo corso nel racconto futuro. A prescindere, infatti, dall’esito incerto e dalla conta dei morti, si tratta di un fallimento da parte del Comandante Waterford (difficile credere che sia morto), a partire da quello che doveva essere il suo grande successo, l’inizio forse di una nuova carriera. Il personaggio interpretato da Joseph Fiennes non è stato molto presente finora in questa seconda stagione, ma in questo episodio abbiamo intravisto che nulla è davvero cambiato: scalpita per più potere, è sedotto dalla forza delle donne, è succube dei propri istinti. Si tratta chiaramente di un uomo che ha sfruttato fino in fondo la situazione a proprio vantaggio ma che probabilmente non è in grado di farlo con la necessaria dedizione. E così questo nuovo colpo non potrà che aprire voragini anche all’interno della propria famiglia.
Ciò che non manca a questa serie e che le permette di respingere le accuse di pornografia del dolore è la costante presenza di un filo di speranza che non si spezza mai: questa volta si tratta della toccante luce di amore che appare in quel coacervo di dolore e sofferenza che è il lager in cui il personaggio di Alexis Bledel è stata spedita. L’arrivo di Janine, in tutta la sua innocenza stralunata, è la spinta a celebrare un matrimonio, un’oasi di serenità che si apre dinanzi a loro nonostante il pericolo costantemente incombente. Emily è inizialmente atterrita da tutto questo: tutta tesa alla cura dei malati e al mantenimento dello status quo (la sopravvivenza), aveva dimenticato che cosa volesse dire provare qualcosa che possa essere umanamente più luminoso. Si prospettano anche per lei stimolanti opportunità narrative.
The Handmaid’s Tale poteva trasformarsi in un disastro, in questa stagione, ma finora si mantiene su ottimi livelli. Nonostante il ritmo sia talvolta imperfetto, la serie non arranca mai e riesce ancora a produrre momenti di grande bellezza. I suoi personaggi, poi, sono potenti e multisfaccettati, impossibili da chiudere in etichette prestabilite e semplici. Ciò che stupisce di questa scrittura è la sua vitalità che non cede mai al facile gusto per lo shock e il dolore: nonostante The Handmaid’s Tale sia difficilissimo da guardare, nondimeno è impossibile staccarsi dalla sua visione perché è in grado di toccare corde che poche altre serie riescono ad individuare.
Voto 2×05: 8 ½
Voto 2×06: 8
Salve!
Mi chiedo come fate a giudicare positivamente questa seconda stagione (almeno i primi 6 episodi, quelli che ho visto finora)?
A parte la fotografia (sempre sontuosa) non è rimasto nulla, e l’allontanamento del racconto dal materiale offerto dal libro si fa sentire tragicamente.
Personaggi stereotipati, fra i quali si riproducono le stesse dinamiche viste nella 1° stagione. Sembra quasi che gli scrittori dei singoli episodi (spero almeno siano diversi) nemmeno si siano parlati fra loro, tanto è repentino (e narrativamente insensato) il cambiamento comportamentale dei personaggi.
Elisabeth Moss appare sprecata, un po’ come avveniva per Claire Daines, straordinaria all’inizio di Homeland, ma poi, incastrata nella sua follia, finiva per diventare fastidiosa per l’insensatezza dei suoi comportamenti, vittima delle disastrose sceneggiatura delle stagioni successive.
Poco di nuovo aggiunto sul mondo di Gilead descritto nella prima stagione e quel poco di nuovo (ad esempio le ecomogli e la vita della classe medio/bassa, le colonie) appena accennato.
Flashback inutili, stancanti, anch’essi ripetitivi, che nulla aggiungono sulla caratterizzazione dei personaggi o sull’intreccio del racconto, ma che vengono messi lì per banali accostamenti con quanto avviene nel presente.
Insomma, come buttare alle ortiche quanto di buono fatto nella prima stagione e un materiale narrativo
potenzialmente esplosivo.