Orange Is the New Black – Stagione 7


Orange Is the New Black - Stagione 7Nel contesto di una produzione, ormai smisurata, di serie dalla vita sempre più breve, si potrebbe pensare che Orange Is the New Black avesse già fatto il suo tempo da un pezzo; e infatti, tra alti e bassi, la storia delle detenute di Litchfield è parsa spesso fiacca, fuori fuoco, ormai senza più nulla di interessante da raccontare. Tuttavia, perfino nei momenti meno incoraggianti i pregi della serie sono rimasti intatti, e la capacità di rinnovarsi ha raccolto ancora una volta i suoi frutti nell’ultima stagione.

Come da tradizione per la serie – lo abbiamo visto con la vicenda di Poussey e il movimento Black Lives Matter – il mondo reale, con le sue questioni più urgenti legate al percorso delle donne rappresentate, ha offerto lo spunto perfetto per il focus stagionale e l’allargamento del discorso critico sul sistema detentivo americano. In quest’ultima annata, infatti, abbiamo conosciuto la realtà dei centri ICE e la tragedia della deportazione di adulti e bambini, con l’introduzione di nuovi personaggi e la ri-ambientazione di alcuni dei vecchi, nonché la costruzione di relazioni molto belle tra i due.

Dal momento che il confine tra narrazione e pornografia del dolore è molto labile, il rischio di sfruttare gli aspetti più drammatici della politica migratoria statunitense per mettere insieme delle scene d’impatto ma fini a se stesse era sicuramente alto. OINTB per fortuna lavora molto sul bilanciamento tra commedia e dramma, riuscendo a smorzare i toni pur affrontando con serietà ed empatia questioni delicate quali la separazione di una madre dai propri figli o le conseguenze di una deportazione. Soprattutto, però, concede ai personaggi lo spazio sufficiente per esprimersi ed evolvere, facendo sì che il loro percorso non venga ridotto a mero strumento della trama.

Orange Is the New Black - Stagione 7Sicuramente il finale non riesce a rendere giustizia al percorso di ogni donna di Litchfield, le cui storie in alcuni casi sembrano troncate frettolosamente (Daya e Aleida su tutte), ma nel complesso il lavoro fatto sulla loro evoluzione all’interno del carcere è centrato ed efficace nel passare da istanze personali a disagi universali senza mai fare un torto alla singola, e in quanto tale unica, storia di crescita, perdizione o riscatto. Tale risultato, per nulla scontato, è il frutto innanzitutto di un lavoro di (auto) analisi molto raffinato relativo agli obiettivi e i linguaggi della serie, che l’ha portata a diventare il mezzo perfetto per discutere di istanze molto complicate in maniera affidabile e non banale. Se già quando è iniziato Orange Is the New Black si è posto come un prodotto innovativo – tante delle cose che oggi ci sembrano normali, come la presenza di protagoniste femminili sfaccettate, l’attenzione per le minoranze, il mix di comedy e drama, erano ancora novità nel 2013 –, la vera rivoluzione è stata la capacità di intercettare l’evoluzione della sensibilità esterna, spostando il focus da Piper – la ragazza bianca di buona famiglia che doveva fare da “filtro” per permettere al target di Netflix di appassionarsi – al resto delle donne della prigione, in modo da sviluppare un campione ed un racconto molto più realistico. Superata, poi, la tendenza ad utilizzare i flashback per rendere le detenute più relatable, e capito che contestualizzare non significa per forza né giustificare né edulcorare, le singole individualità sono emerse con più potenza e si è potuto fare un discorso a livello sistemico molto più interessante.

Con in mente questo percorso possiamo dare il giusto valore, ad esempio, alla storia di un personaggio come Taystee, tra i più riusciti non soltanto della stagione ma dell’intera serie. Pensiamo alla relazione che le autrici creano tra lei e Pennsatucky: l’unica uscita di scena che sembra effettivamente riducibile ad un device narrativo è quella di quest’ultima, la cui morte/suicidio arriva al culmine di un percorso complesso e molto sensato in maniera forse troppo brusca, e ha dunque il sapore di eccessiva strumentalizzazione. Ma questo “difetto” probabilmente non è casuale, perché serve anche a ribaltare un topos molto subdolo in termini di rappresentazione per la comunità nera: è, infatti, questo evento, o piuttosto il suo significato, a convincere Taystee a rinunciare all’intenzione di togliersi la vita. Per una volta, quindi, non è la donna o l’uomo di colore a fare da supporto nel percorso di caratterizzazione del proprio amico bianco, spingendolo a cambiare/crescere/fare una scelta importante solitamente grazie a una qualche tragedia che lo coinvolge, ma l’esatto contrario.

Orange Is the New Black - Stagione 7In più, il suo arco – da vera e propria protagonista – è affascinante perché incarna alla perfezione l’idea di autodeterminazione e crescita che la serie porta avanti da sempre. Una storia, insieme a quella di Caputo e Figueroa (giusto per citare altri due personaggi bellissimi), che parla di “resistenza” in maniera realistica: tutti e tre, infatti, fanno quello che possono in un sistema disumano, con i loro momenti di gloria sofferti, in sordina e soltanto parzialmente soddisfacenti. Molto bello, a proposito, anche il trattamento della questione #metoo, che nello stile della serie viene affrontata con fermezza ma anche compassione, inserita nella cornice teorica della “restorative justice”. Le lezioni di Caputo sono infatti rivolte anche agli spettatori: un modo per riassumere e formalizzare i valori che hanno informato la serie in questi anni in maniera chiara e organica, chiudendo il cerchio sulle scelte narrative dai risvolti etici che costituiscono l’ossatura di OINTB. In questo sistema di valori, costruito con tempo e pazienza affinché risultasse credibile, c’è spazio per perdonare anche Cindy, offrendole una storyline di redenzione anche stavolta non lineare ma realistica, e perfino per ascoltare cos’ha da dire un personaggio in altri contesti irricevibile come “baby killer” Beth.

Per questo, e nonostante i suoi innegabili difetti tra cui il “sovraffollamento” della prigione anche in termini di scrittura – tale per cui percorsi potenzialmente interessantissimi come quello di Red sono rimasti nell’ombra ed altri sono apparsi interrotti troppo presto, mentre alla storia sicuramente meno avvincente di Piper ed Alex è stato riservato fin troppo tempo –,  la serie di Jenji Kohan e della sua leggendaria writers’ room inclusiva ci ha salutato nel modo giusto, celebrando la sua tradizione e ricordandoci perché ci ha fatto innamorare ormai 7 anni fa: l’intersezionalità è la strada da seguire per una tv, e un mondo, migliore.

Voto stagione: 7
Voto serie: 7 e 1/2

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Informazioni su Francesca Anelli

Galeotto fu How I Met Your Mother (e il solito ritardo della distribuzione italiana): scoperto il mondo del fansubbing, il passo da fruitrice a traduttrice, e infine a malata seriale è stato fin troppo breve. Adesso guardo una quantità spropositata di serie tv, e nei momenti liberi studio comunicazione all'università. Ancora porto il lutto per la fine di Breaking Bad, ma nel mio cuore c'è sempre spazio per una serie nuova, specie se british. Non a caso sono una fan sfegatata del Dottore e considero i tempi di attesa tra una stagione di Sherlock e l'altra un grave crimine contro l'umanità. Ah, mettiamo subito le cose in chiaro: se non vi piace Community non abbiamo più niente da dirci.

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