Da quando Ryan Murphy è stato ricoperto d’oro da Netflix grazie ad uno dei contratti più ricchi della storia della televisione ha sempre, nel bene e nel male, fatto parlare dei suoi nuovi progetti. È questa, in realtà, una caratteristica intrinseca a tutta la sua produzione, caratterizzata da una fortissima aderenza ad una visione del mondo molto chiara dal punto di vista sociale e politico e, per questo, molto di parte; è per tale motivo che tra tutti gli autori televisivi Murphy è uno di quelli che si porta dietro una polarizzazione del pubblico tanto ampia, da detrattori feroci ad estimatori adoranti.
Non molto tempo fa, infatti, ci trovavamo a discutere di Hollywood, l’ucronia utopica ambientata durante la golden age hollywoodiana, in un universo nel quale i diritti civili fanno un balzo in avanti di decenni grazie alla caparbietà di un gruppo di giovani artisti e persone dalla mentalità progressista. La riscrittura della storia di Murphy e Brennan prendeva piede a partire dal punto di vista degli ultimi, degli oppressi, di quelle persone che la società discriminava a discapito dei loro meriti artistici; The Politician è una serie di tutt’altro stampo perché l’occhio dello spettatore deve sovrapporsi a quello di un ragazzo ricco e ambizioso che mira a diventare un giorno Presidente degli Stati Uniti.
La prima stagione di The Politician ha diviso nettamente il pubblico, costruendo una campagna elettorale di dimensioni “scolastiche” con il fine simbolico di fare satira sulla politica a tutto tondo; l’obiettivo è stato raggiunto solo in parte, poiché, sebbene lo show avesse un ritmo forsennato e fosse estremamente intelligente nello stile e nei dialoghi, a tratti sembrava quasi supponente e snob, creando un distacco persino con chi è abituato alle serie di Ryan Murphy. Il finale della prima annata forniva però un trampolino decisamente interessante in vista del prosieguo della carriera politica di Payton: la possibilità di correre per la carica di senatore a New York a scapito della vulnerabile senatrice di lungo corso Dede Standish (Judith Light).
La scelta di condurre le ambizioni di Payton ad un livello superiore paga subito: la stagione inizia, infatti, in medias res trasportando lo spettatore direttamente alle fasi finali della campagna elettorale e gettandolo in un ambiente chiaramente poco sano e privo di valori morali. Già la prima stagione aveva puntato forte sul mostrare la tossicità che può assumere una campagna elettorale e i livelli bassissimi che possono andare a toccare i candidati al fine di portare voti dalla loro parte; quest’anno The Politician esaspera ancora di più questo aspetto trasformando la comunicazione politica in un’arena nella quale le informazioni e i segreti giocano un ruolo fondamentale. Tra doppiogiochisti, infiltrati, leak di foto compromettenti e rivelazioni sulla vita intima e privata degli avversari, il gusto per l’esagerazione sfrontata degli autori raggiunge picchi di incredibilità che sorprendono e divertono; per fortuna, però, al fianco di tutto questo c’è anche dell’altro.
I believe we’re in a climate emergency and our political leaders have failed the younger generation by ignoring it […]
The only way I’m gonna win this race is to get young people to vote. And the only thing that truly inspires young people to get off their buns and actually vote is climate change. […]
È nelle tematiche trattate che Murphy trova terreno fertile per veicolare la propria visione del mondo, e questo emerge tra le pieghe di The Politician a volte in modo molto didascalico – ma chi conosce l’autore sa che questa è una sua prerogativa – e a volte più nascosto, ma sempre in modo chiaro e comprensibile da tutti. In questa stagione l’accento viene posto soprattutto sul climate change, argomento la cui urgenza non viene solitamente esplicitata nei prodotti televisivi e cinematografici, che diventa il fulcro della campagna elettorale di Payton. Attraverso il personaggio di Infinity (Zoey Deutch) lo show fa una disamina importante sul tema, legandosi all’attualità e al concetto della responsabilità delle nuove generazioni nei confronti del mondo nel quale vivono e vivranno in futuro. Questa urgenza non è certo sentita e genuina per lo staff di Payton, anzi: la scelta di puntare sulle tematiche ambientaliste è esplicitamente una scelta strumentale per aumentare le proprie chance di vittoria, tuttavia è esemplare il discorso che il protagonista fa alla giovane volontaria in “The Voters” che lo incalza con domande relative alla sua dedizione alla causa. Il dialogo, uno dei migliori della stagione, rappresenta il pragmatismo utopico del sistema politico democratico, un sistema in cui è importante scegliere i temi sui quali puntare e sui quali si vuole intervenire a partire dalle esigenze delle persone: è chiaro che può sembrare solo un metodo subdolo per accaparrarsi voti ed essere eletto, ma un buon politico dovrebbe saper scegliere le lotte che vuole affrontare anche quando non le sente come proprie, perché questo non vuol dire che non siano importanti. Se un candidato, pur non riponendo una fede cieca nell’economia green e nello stile di vita zero waste, sceglie comunque di portare avanti un programma ambientalista, non è un ipocrita, perché riconosce che è una battaglia importante per tantissimi altri e si sente in dovere di dar voce a chi di solito non va neanche a votare per pigrizia.
Cultural appropriation exploits the culture of less privileged groups. You call it borrowing, we call it stealing.
Una menzione particolare la merita anche l’episodio “Cancel Culture” nel quale si parla di appropriazione culturale e di come lo sfruttamento dei simboli di culture diverse da quella dominante – anche a fini commerciali – siano indirettamente una forma di oppressione. Il riferimento è alla foto di Payton nel costume di carnevale di un capo indiano che viene usata come attacco personale sui giornali, mostrando la sua mancanza di rispetto nei confronti della cultura nativa. Il tema è scivoloso e molto delicato e, come dice Skye (Rahne Jones) in modo sintetico ma esaustivo, “there is a thin line between appreciation and appropriation” che è poi il punto fondamentale del discorso. Murphy e Brennan non hanno paura nel prendere di petto la questione, anche se forse ci si sarebbe aspettati qualcosa di più di una semplice menzione strumentale ai fini della narrazione – che è comunque importante, sia chiaro.
Nonostante il sottotesto, i messaggi politici e sociali e il glamour di cui è pervasa la serie, è indubbio che anche questa seconda stagione, come la prima, si parli un po’ addosso e si compiaccia un po’ troppo della propria intelligenza. Il ritmo e i dialoghi sono incalzanti e molto attuali sia nei riferimenti pop – quelli a Game Of Thrones tra gli altri – che nell’ironia sempre ficcante che comunica in modo indiretto con lo spettatore, ma proprio per questo la loro esasperazione raggiunge alle volte un livello esagerato e fastidioso persino per gli standard di The Politician. Un difetto di stile che emerge in modo particolare con la storyline di Georgina Hobart (Gwyneth Paltrow) che pare un’enorme appendice alla vicenda principale, poco approfondita e, per questo, poco interessante nella sua risoluzione.
La seconda stagione di The Politician è nettamente superiore alla prima, anche se si porta dietro alcuni nei atavici che, a questo punto, sembra che siano impressi nel DNA dello show. Come tutti i prodotti di Ryan Murphy la serie dividerà il pubblico in modo netto ma, nonostante tutto, non si può non apprezzare uno show che porta sullo schermo tematiche attuali e di cui si parla fin troppo poco, dalle relazioni poliamorose all’aborto, e che le immerge in una narrazione leggera e scanzonata, caratterizzata dagli eccessi e da personaggi così improbabili da risultare, alla fine, anche simpatici.
Voto: 7 ½