The Kominsky Method – Stagione 3


The Kominsky Method - Stagione 3The Kominsky Method, serie creata da Chuck Lorre nel 2018, arriva alla sua conclusione dopo tre stagioni andate in onda su Netflix e lo fa con un’annata particolare: sebbene infatti la serie abbia nel titolo il nome di Sandy Kominsky, interpretato da Michael Douglas, fino alla fine della seconda stagione è sempre stato indubbio che i protagonisti della serie fossero due, Sandy e Norman Newlander (Alan Arkin), o meglio, la loro amicizia. Arrivati però vicini alla produzione dell’ultima stagione, è giunta una news inaspettata. 

A settembre 2020, infatti, su Deadline apparve la notizia che Alan Arkin non sarebbe tornato per la terza stagione di The Kominsky Method e che questa decisione non aveva nulla a che spartire con la pandemia: semplicemente, Arkin aveva dato la disponibilità per solo due stagioni, e la sua uscita di scena non era stata organizzata perché non si sapeva se la serie sarebbe proseguita o meno.
Con il rinnovo per un’ultima stagione, gli autori della serie si sono ritrovati a dover gestire una conclusione senza l’elemento fondamentale dell’amicizia tra i due; di più, senza quelle interazioni che – grazie alla scrittura, ma anche alla forte chimica tra Douglas e Arkin – hanno fatto la fortuna di questa comedy.
È da questa necessità che nasce l’idea di far partire l’ultima stagione proprio con il funerale di Norman: se non c’è stata alcuna possibilità di strutturare una sua uscita di scena in un modo che fosse narrativamente soddisfacente, allora diventa quasi obbligatorio far sì che il suo funerale – anzi, la sua morte – si trasformi in motore propulsivo degli eventi.
Come integrare quindi questa perdita nella vita di Sandy a livello diegetico e nella costruzione della serie? Principalmente Lorre ha lavorato su due fronti: da una parte mantenere la presenza di Norman all’interno dello show, dall’altra sostituire la sua presenza (e la relazione affettuosa e caustica al tempo stesso che aveva con Sandy) con quella di un’altra persona.

Thank you, Norman.

The Kominsky Method - Stagione 3Partiamo quindi dal primo punto: Norman rimane una presenza costante nello show non solo perché Sandy deve elaborarne il lutto, ma anche perché tutto ciò che gli accadrà da qui in poi sarà in qualche modo collegato all’amico. La scena della season premiere “In All The Old Familiar Places” in cui Sandy incontra un cagnolino di nome Irving (come il secondo nome di Norman) assume quindi un duplice significato: se da una parte rappresenta quel tipico stato d’animo di chi ha appena sofferto una perdita importante e quasi cerca intorno a sé dei segni che certifichino ancora la presenza di quella persona, d’altra parte, a livello narrativo, è il segnale della forte influenza che Norman continuerà ad avere in questa storia.
Quel “Thank You, Norman” pronunciato più volte da Sandy ne è un simbolo: da rimbrotto ironico per la questione dell’eredità, che arriva ad ogni nuova follia di Phoebe e Robby, diventerà un vero e proprio ringraziamento quando la sua vita prenderà una spiega inaspettata proprio grazie alle azioni (fino a quel momento sconosciute) di Norman. La trasformazione dei suoi “Thank You, Norman” alla fine non è altro che l’evoluzione stessa dell’elaborazione del lutto, quella che passa dalla rabbia all’accettazione, e a sua volta è anche la rappresentazione di una presa di coscienza tutt’altro che scontata all’interno della serie e che ha a che fare proprio con l’amicizia storica tra Sandy e Norman.

Si è spesso parlato di questa serie come di uno show che sì, aveva indubbiamente qualcosa da dire, ma che finiva col raccontare ciò che, tra cinema e TV, è stato rappresentato fin troppo spesso, ossia il punto di vista sul mondo e in particolare sull’ambiente dello spettacolo di uomini bianchi, privilegiati e di una certa età. Ed è vero, è difficile dire che non sia così; eppure c’è sempre stato qualcosa di più, che emergeva a tratti nelle prime due stagioni e che con questa terza arriva a completa maturazione, cioè l’analisi di un’amicizia complessa tra due uomini figli del loro tempo – e dunque piuttosto restii a manifestare affetto reciproco – e al contempo lo sguardo disincantato di due uomini di età avanzata che riflettono (ora in modo diretto, ora in modo più nascosto) non tanto sul significato della loro esistenza quanto su cosa voglia dire avvicinarsi alla morte. La riflessione sulla fine della vita, sulla malattia e su come questa cambi completamente la mente umana, e i pensieri di una persona anziana che inevitabilmente ha davanti a sé molta meno vita di quella che ha vissuto, sono ad oggi ancora un tabù, anche se spesso fingiamo che non lo siano: eppure quante volte, davanti alle persone anziane delle nostre vite che esprimono pensieri sulla morte, ci ritroviamo a dire “Dai, non pensiamoci ora!”, a cambiare discorso per non dover affrontare la vulnerabilità di quello che comporta una domanda come “Ci stai pensando? Vuoi che ne parliamo?”.

The Kominsky Method - Stagione 3The Kominsky Method prende due temi così enormi come quello dell’amicizia tra uomini più che adulti e quello dell’anzianità e li mette in scena, con risultati a volte altalenanti ma che soprattutto in questa stagione – con un Norman presente in absentia – raggiungono picchi molto alti grazie all’introspezione di Sandy, vulnerabile come non lo è mai stato, e che soprattutto si ritrova da solo a dover fare i conti con il fatto che l’amicizia tra lui e Norman fosse fatta troppo spesso di non detti. La riflessione sulla difficoltà per due uomini della loro età di aprirsi davvero, di mostrare le loro fragilità, è la prima cosa a cui assistiamo durante la premiere: il discorso di Sandy al funerale, quel “I’m gonna fall back on the truth” che apre tutti i momenti in cui gli è stato vicino ma non senza risultare al contempo “un amico difficile”, è davvero una dichiarazione di un’amicizia solida e sincera ma che al contempo non permetteva a nessuno dei due di essere davvero vulnerabile se non in rarissimi istanti; che non concedeva a nessuno dei due il lusso di dichiararsi orgoglioso dell’altro se non a orecchie estranee.
E la conferma ce l’abbiamo proprio a partire da quel “Thank You, Norman” detto in tono diverso, quando a Sandy arriva la telefonata che gli cambierà la vita. Quando Barry Levinson (nei panni di se stesso) chiama per quella proposta lavorativa che Sandy ha atteso per una vita, è un momento cruciale per lui non solo da un punto di vista lavorativo, ma anche per la consapevolezza della stima che Norman nutriva per lui a livello professionale oltre che umano. “You know, Norman was your biggest fan”, gli dice Barry, e Sandy risponde esattamente come ci aspettiamo, perché Norman non gliel’ha mai detto.

È difficile capire come un’amicizia così importante possa al contempo essere così piena di affetto non dichiarato, e se è difficile capirlo è perché per troppo tempo si è dato per scontato che sullo schermo, come nella vita, le amicizie maschili dovessero essere così.
Ad oggi, grazie a una sempre maggiore consapevolezza sociale di come anche tra uomini l’amicizia possa e debba lasciare spazio all’affetto e alle vulnerabilità, a livello di rappresentazione osserviamo sempre più spesso esempi di amicizia maschile positivi e finalmente aperti; ciò che invece è raro è trovare una riflessione sulle conseguenze a lungo termine di quel genere di amicizie “vecchio stile”, quei legami così simili a quello di Norman e Sandy.
È qui che The Kominsky Method fa quel salto che la rende eccezionalmente attuale: la rilettura di questo legame con un respiro più contemporaneo è incredibilmente importante, a maggior ragione se la si unisce ad una riflessione per nulla scontata sulla morte e sull’importanza di esprimere sentimenti indipendentemente dal proprio genere. Non è infatti causale che durante due sue lezioni Sandy parli esattamente di questi due argomenti: nel primo episodio spiega ai suoi studenti come ci venga insegnato che alcune emozioni che proviamo vadano soppresse – gli uomini non devono mostrare paura o saranno considerati deboli; le donne non devono esprimere rabbia o alzare la voce, se no passeranno per stronze.
The Kominsky Method - Stagione 3E in un altro momento cruciale della stagione, nel quinto episodio “Near, Far, Wherever You Are”, troviamo un altro monologo di Sandy che qui parla della morte, e guarda caso non di una morte violenta, ma di quella che arriva ampiamente prevista – proprio come quella per anzianità. Trapela l’immagine di una morte solitaria, in cui a dominare sono “l’incredulità e la meraviglia” del fatto che la propria vita stia giungendo a conclusione. “For the dying, the living are irrelevant”: sebbene Sandy stia facendo una lezione su come si mette in scena la dipartita di un personaggio, è impossibile non vedere in questo monologo un completo ribaltamento della morte per come siamo abituati a vederla sullo schermo. Non ci sono promesse richieste ai parenti, non ci sono grandi rivelazioni agli amici: “Per chi sta morendo, i vivi sono irrilevanti” è una frase di una potenza clamorosa, che sovverte qualunque narrazione della morte e che ci porta dritti lì, nel legittimo egoismo di una persona che – anziana, ma nel pieno delle sue facoltà – non ha alcuna intenzione di lasciare la vita.

È impossibile dunque non vedere anche in questa stagione l’amicizia tra Sandy e Norman come assoluta protagonista: nella parte più comica e irriverente viene sostituita dal peso, lasciato dal secondo al primo, di dover gestire la questione dell’eredità e tutte le sue conseguenze (che ci sono non solo nella parte legata a Phoebe e Robby, che costituiscono il vero comic relief della stagione, ma anche per come va ad influenzare la relazione tra Mindy e Martin); la parte più strettamente affettiva, invece, è una continua scoperta, anche post mortem, del valore della loro amicizia, ma anche di quanto la vita possa riservare ancora grandi sorprese.

“So… Is this the kind of conversation you would’ve had with Norman?”
“Probably, yeah. Although he would’ve ridiculed me more”
“Oh, I can do that!”

The Kominsky Method - Stagione 3Rimane il fatto che, a livello scenico, manchino le interazioni di Sandy con Norman, ciò che rendeva questa serie più puramente comedy (anche se definirla dramedy non sarebbe certo un errore): questa mancanza viene sopperita prendendo un personaggio comparso solo nella scorsa stagione e rendendolo series regular, anche se solo per gli ultimi episodi. Ovviamente la scelta non poteva che cadere su Roz, l’ex moglie di Sandy interpretata da Kathleen Turner (che ricordiamo insieme a Michael Douglas nell’indimenticabile “La Guerra dei Roses”); e non poteva essere altrimenti, dato che le poche interazioni a distanza tra i due ci avevano dato un assaggio di un rapporto molto simile a quello tra Sandy e Norman, fatto però in questo caso di vecchi rancori sovrapposti ad un affetto sincero e impossibile da dimenticare. Sono gli scambi Sandy-Roz a dominare la scena di questa stagione, che permettono a Sandy di non ripetere l’errore compiuto con Norman. Nel momento in cui infatti si scopre che anche Roz verrà presto a mancare, Sandy ritorna sui suoi passi, rianalizza la sua vita e, pur consapevole di non poter cambiare il passato, fa del suo meglio per esserci per la sua ex moglie – a dimostrazione del fatto che sì, si cresce sempre, anche quando si pensa di non avere più nulla da imparare ma solo da insegnare.

È un discorso che permea l’intera stagione, e che sembra volto a dimostrare come certe convinzioni possano essere ribaltate: ad esempio ci aspetteremmo discorsi sull’educazione sentimentale o sul blackface da ragazzi giovani, e non certo da persone più in là con gli anni, che in The Kominsky Method sembrano invece parlarne con una consapevolezza inaspettata – e laddove questa consapevolezza non c’è, come nel caso della madre di Martin e il suo bodyshaming, viene completamente ridicolizzata da un personaggio insopportabile.
The Kominsky Method - Stagione 3Al contrario, essere giovani non è automaticamente sinonimo di comprensione delle dinamiche sociali: in quello che sembra un vero e proprio attacco a certe writers’ room di Hollywood, la scena di Morgan Freeman sul set di Quincy ci mostra come alcune serie siano più interessate ad attirare il pubblico con tematiche LGBTQ+ senza veramente comprenderle o renderle fruibili per il pubblico – un concetto, questo, che invece risulta molto più chiaro a Freeman e a Kominsky, nonostante ad un livello superficiale la loro età possa far presumere l’esatto opposto.

Se c’è un difetto in questa stagione si trova certamente in un finale che in mezz’ora vuole raccontare troppo, con ben due salti temporali posizionati strategicamente per farci assistere sia alla morte di Roz che alla vittoria dell’Emmy di Sandy (e anche a quello di Margaret, il cui percorso viene usato in modo parallelo a quello del suo mentore proprio per mostrarne le similitudini e le differenze).
Ma il senso rimane, ed è quello di un uomo che proprio quando pensava di non poter più raggiungere il suo sogno (“I’ve lived my life with a broken heart”, dice a Roz al telefono mentre osserva il cartellone che lo immortala come protagonista di “The Old Man and The Sea”) si ritrova a doverlo gestire senza sapere come fare, abituatosi ormai all’idea di non poter più essere un attore ma solo un insegnante. Ed è forse per questo che alla fine accetta entrambe le parti di sé: ritira orgogliosamente l’Emmy e altrettanto orgogliosamente torna dalla sua classe per portare avanti quella carriera di insegnante che ha segnato tutta la sua vita.

The Kominsky Method - Stagione 3Alla fine il senso dell’intera serie è stato solo all’apparenza un’analisi già vista di due uomini e delle loro relazioni personali e all’interno dello showbusiness; ad un livello più profondo si è trattato di una riflessione inusuale sull’amicizia e sulle conseguenze di certi comportamenti, soprattutto quando vengono protratti per tutta la vita. È chiaro come con questa stagione di The Kominsky Method Chuck Lorre abbia saputo sfruttare l’assenza di Alan Arkin per portare il discorso ancora più in profondità, senza risparmiarsi nulla, senza appoggiarsi ad alcuno stereotipo scontato sulla terza età, facendoci ridere e anche piangere parecchio, ma senza mai smettere di ricordarci che per sognare, per imparare e per migliorare se stessi c’è sempre tempo, fino alla fine.

Voto Stagione: 8
Voto Serie: 7½

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Informazioni su Federica Barbera

La sua passione per le serie tv inizia quando, non ancora compiuti i 7 anni, guarda Twin Peaks e comincia a porsi le prime domande esistenziali: riuscirò mai a non avere paura di Bob, a non sentire più i brividi quando vedo il nanetto, a disinnamorarmi di Dale Cooper? A distanza di vent’anni, le risposte sono ancora No, No e No. Inizia a scrivere di serie tv quando si ritrova a commentare puntate di Lost tra un capitolo e l’altro della tesi e capisce che ormai è troppo tardi per rinsavire quando il duo Lindelof-Cuse vince a mani basse contro la squadra capitanata da Giuseppe Verdi e Luchino Visconti. Ama le serie complicate, i lunghi silenzi e tutto ciò che è capace di tirarle un metaforico pugno in pancia, ma prova un’insana attrazione per le serie trash, senza le quali non riesce più a vivere. La chiamano “recensora seriale” perché sì, è un nome fighissimo e l’ha inventato lei, ma anche “la giustificatrice pazza”, perché gli articoli devono presentarsi sempre bene e guai a voi se allineate tutto su un lato - come questo form costringe a fare. Si dice che non abbia più una vita sociale, ma il suo migliore amico Dexter Morgan, il suo amante Don Draper e i suoi colleghi di lavoro Walter White e Jesse Pinkman smentiscono categoricamente queste affermazioni.

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