American Horror Story: Double Feature – Stagione 10


American Horror Story: Double Feature – Stagione 10La decima stagione di American Horror Story si intitola “Double Feature” ed è inaugurata forse dalla premiere più convincente da tanti anni a questa parte, che introduce in maniera intrigante, politicamente appuntita ed esteticamente sofisticata il misterioso tema stagionale. Di quest’ultimo si sapeva solo che la struttura sarebbe stata divisa in due, con la prima parte ambientata sul mare e la seconda nel deserto, e che ai vampiri avrebbero fatto seguito gli alieni.

Nonostante dal punto di vista qualitativo sia uno show altalenante, American Horror Story è forse la serie per cui ricorderemo maggiormente Ryan Murphy. Non solo perché è stata quella che più ha portato avanti il formato antologico stagionale ma anche perché, dimostrando di saper arrivare sia al pubblico generalista che a quello più di nicchia, ha conquistato una longevità che dà anno dopo anno più forza al progetto.
C’è chi le preferisce la miniserie su O.J. Simpson, chi Pose e chi Feud – tutte serie sicuramente con meno difetti di American Horror Story – ma allargando un po’ l’obiettivo è evidente che il lascito di uno show che ogni anno riesce a parlare degli Stati Uniti attraverso l’orrore, passando dal folklore ai sottogeneri, dalla fantascienza alla politica contemporanea, sia superiore agli altri.

American Horror Story: Double Feature – Stagione 10Dopo anni in cui la critica, salvo eccezioni, ha trattato le stagioni di American Horror Story con un misto tra severità e pregiudizio, questa volta la reazione iniziale è stata molto diversa e, almeno rispetto a questi primi episodi, i giudizi sono stati ottimi.
In effetti la stagione comincia in modo molto convincente e prosegue in maniera altrettanto solida ragionando sul ruolo tossico del successo nella nostra società, sulla gloria come obiettivo bramato a qualsiasi prezzo, sulla zombificazione del mondo dell’arte, sulla dipendenza da farmaci e sulla scrittura creativa come forma vampirizzazione delle vite degli altri (oltre che della propria).

Tra le critiche più ricorrenti ricevute da American Horror Story in questi anni, c’è il fatto che in alcuni casi all’eccitazione per l’originalità dell’idea di partenza seguono uno sviluppo e soprattutto una conclusione non all’altezza delle aspettative iniziali. Tante bellissime idee spesso sviluppate – secondo alcuni – in un modo un po’ raffazzonato e portate a termine avendo il punto d’arrivo decisamente meno chiaro rispetto a quello di partenza.
Ed è forse anche alla luce di questo che i creatori hanno voluto sperimentare ancora nella struttura narrativa, dando alla stagione una dimensione antologica interna, così da circoscrivere ancora di più i racconti, quasi a volerli proteggere. “Double Feature” ha infatti una prima parte (episodi 1-6) intitolata “Red Tide”, ambientata nella cittadina marittima del Massachusetts Provincetown e incentrata sul vampirismo, a cui segue una seconda storia (episodi 7-10) chiamata “Death Valley”, collocata geograficamente nell’omonimo deserto e in cui vengono raccontati tutti i cliché della fantascienza da Guerra Fredda, in cui gli alieni erano soprattutto la paura dell’ignoto, del diverso, del nemico.

American Horror Story: Double Feature – Stagione 10La prima parte usa il vampirismo per parlare di edonismo, della voglia di gloria e della creazione artistica come ponte per la celebrità da percorrere ad ogni costo, sacrificando anche le persone più vicine. Lo fa con un Finn Wittrock che si conferma sempre di più uno degli attori feticcio di Murphy più efficaci, che in questo caso comunica alla perfezione la perdita totale del controllo nel momento in cui la seduzione del successo personale non solo va in diretto contrasto con il bene del nucleo familiare, ma colpisce anche gli altri componenti della famiglia, in particolare la figlia, protagonista di alcune tra le più spaventose sequenze della stagione.

Quali sono i danni collaterali di questo meccanismo? Murphy e Falchuk ci raccontano non solo la celebrità e la performance come forme di dipendenza, ma anche cosa succede a chi viene triturato dagli ingranaggi dell’ideologia della meritocrazia, mettendo in luce tutta la tossicità di quest’ultima. Attraverso i trope più ricorrente del genere, utilizzando in questo caso i cliché delle storie di vampiri, la serie ci racconta quanto la celebrazione del talento possa avere risvolti escludenti e pericolosi, producendo un odio sociale dovuto a una società basata sull’invidia e la competizione sfrenata.
È infatti impossibile godersi il successo in un mondo del genere, persino per le persone più dotate, perché si è stritolati da meccanismi di superbia e rapacità che escludono la gratificazione e il piacere in favore della tensione ad accumulare sempre più gloria, con cui viene stabilito un rapporto a tutti gli effetti di dipendenza.

American Horror Story: Double Feature – Stagione 10In questa sorta di giustapposizione di due miniserie, dopo una parte iniziale più consistente e strutturata ne arriva una seconda decisamente più fuori controllo, ma al contempo anche esteticamente più rigorosa e più esuberante dal punto di vista teorico.
La riflessione di “Death Valley”, infatti, è prima di tutto concettuale, perché nel fare con gli alieni ciò che “Red Tide” fa con i vampiri ci riporta a un’estetica ben precisa, che ha radici tra gli anni nel misterioso splendore midcentury degli Stati Uniti di metà Novecento, in cui si celano paure mai davvero comprese e l’ignoto rappresenta al contempo una fonte di terrore e di fascino.

In questa pazza seconda metà di stagione per buona parte sembra di assistere a un omaggio all’episodio 8 di Twin Peaks: The Return, sia per le scelte di messa in scena che per il tono che costeggia l’assurdo e il grottesco. Allo stesso tempo, però tutti i discorsi che incrociano il complottismo politico con il paranormale rimandano in maniera diretta a The Twilight Zone e alla fantascienza degli anni Cinquanta e Sessanta, a cominciare da L’invasione degli Ultracorpi.

American Horror Story: Double Feature – Stagione 10“Death Valley”, però, non è solo una miniserie più breve della prima, ma è anche a sua volta internamente divisa in due parti, perché sin dal primo episodio si finisce in una specie di presente, ovviamente collegato al passato dagli alieni – Angelica Ross, presente in entrambe le storie, è fantastica – in cui si parla di clonazione, colonizzazione, marginalizzazione della specie umana e impotenza nei confronti di una natura il cui corso non ci vede come protagonisti.
Qui Murphy e Falchuk si divertono tantissimo a mostrarci tutti i lati dell’assurdo, costruendo nella sezione ambientata nel presente una specie di satira sociale nella quale però costruire il loro solito quadretto in cui la rappresentazione spinge la realtà sempre un po’ più in là, mostrando non solo relazioni romantico-sessuali fluide, ma anche uomini gravidi e che partoriscono, ricordandoci che non tutte le persone che danno alla luce dei figli si identificano come donne, cosa troppo spesso dimenticata.

Complessivamente il comparto attoriale è di alto livello e in particolare Frances Conroy e Evan Peters sono in stato di grazia, esaltati da una storia che con i suoi momenti di karaoke e crossdressing si confà alla perfezione alle loro doti interpretative.
È sempre difficile dare una valutazione delle annate di American Horror Story, perché il ventaglio narrativo è così ampio che ciascuno le percepisce a proprio modo, rendendo il tutto molto soggettivo. Su un piano puramente critico, però, e valutando le scelte narrative e formali compiute dal team creativo, questa è stata una delle storie più intriganti, divertenti, spaventose e ambiziose portate in scena da Ryan Murphy e Brad Falchuk in questi dieci anni.

Voto: 8

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Informazioni su Attilio Palmieri

Di nascita (e fede) partenopea, si diploma nel 2007 con una tesina su Ecce Bombo e l'incomunicabilità, senza però alcun riferimento ad Alvaro Rissa. Alla fine dello stesso anno, sull'onda di una fervida passione per il cinema e una cronica cinefilia, si trasferisce a Torino per studiare al DAMS. La New Hollywood prima e la serialità americana poi caratterizzano la laurea triennale e magistrale. Attualmente dottorando all'Università di Bologna, cerca di far diventare un lavoro la sua dipendenza incurabile dalle serie televisive, soprattutto americane e britanniche. Pensa che, oggetti mediali a parte, il tè, il whisky e il Napoli siano le "cose per cui vale la pena vivere".

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