Il genere giallo ha sempre avuto un discreto successo in televisione e al cinema, trovando negli ultimi anni nuove forme per raccontare un mistero e i suoi personaggi. Non solo ci si riferisce ai grandi polizieschi con protagonisti come Miss Marple, Poirot, Sherlock Holmes, Perry Mason – o più recentemente i vari CSI o procedurali di questo genere – ma anche a prodotti più attenti ai nuovi ritmi narrativi, come Sherlock o Knives Out.
Di primo acchito, la serie A Murder at the End of the World si presenta come un sunto di alcune di queste istanze: esteticamente deve molto ai polizieschi dell’Europa settentrionale (la serie d’altronde è ambientata per buona parte in Islanda), e la protagonista stessa è una giovane hacker, un ruolo che aveva reso celebre Noomi Rapace nel film Uomini che odiano le donne della saga scritta da Stieg Larsson. C’è persino un po’ di Glass Onion, il secondo capitolo di Knives Out di Rian Johnson, con cui condivide la centralità data a un ricco magnate dalle idee molto ambiziose su come cambiare il futuro del mondo. Ma soprattutto c’è Agatha Christie e il modello dei dieci piccoli indiani, con l’idea di ospiti che iniziano a morire e un senso di soffocamento nel sapere che una delle persone con cui si interagisce è sicuramente un killer.
Se, dunque, la prima impressione lascia pensare a un prodotto non troppo originale, la sua esecuzione (almeno stando ai primi due episodi già disponibili su Hulu) risulta tutt’altro che scontata. Realizzata da Brit Marling e Zal Batmanglij (già alle prese con la serie Netflix The OA, con la prima che interpreta anche un personaggio della serie), A Murder at the End of the World si incentra su Darby Hart, una giovane hacker con una propensione a indagare crimini irrisolti che le ha permesso di diventare una scrittrice dal discreto successo. La ragazza viene invitata dal magnate tech Andy Ronson (Clive Owen) a trascorrere alcuni giorni presso una residenza segreta e privata in Islanda in cui si riuniranno alcune delle menti più brillanti a disposizione, con il compito di trovare soluzioni concrete ai problemi che attanagliano la società contemporanea. L’idillio si interrompe molto rapidamente quando qualcuno viene ucciso e c’è un evidente tentativo di mettere subito le cose a tacere.
Questo appena descritto rappresenta il filone principale della narrazione che riguarda Darby e il suo presente. Questo racconto, però, si alterna con almeno altri due momenti della sua vita, ovvero la sua educazione accanto al padre, un medico legale che l’ha sempre tenuta con sé anche durante il proprio lavoro, e la ricerca di quel serial killer che farà poi il successo del libro di Darby intitolato come il secondo episodio “The Silver Doe“. Questi tre piani temporali si incontrano e scontrano continuamente, permettendoci di entrare più in profondità nella vita complessa e certamente atipica di Darby, una giovane donna che sempre avuto una grande familiarità con la morte. C’è in questo desiderio di mostrarci più di un caso alla volta non solo un tentativo di rendere più interessante il racconto generale, ma anche di darci accesso all’intimità di Darby e alla sua relazione con Bill, che tanta parte gioca all’interno di questo primo assaggio della serie. È l’ossessione per il tentativo di risolvere il caso della ragazza dagli orecchini d’argento a gettare le basi – e questo lo capiamo molto presto nell’episodio pilota – del loro rapporto e del modo in cui Darby guarda al mondo.
I primi due episodi introducono con efficacia lo spettatore alle varie linee narrative senza problemi di confusione ma anzi riuscendo ad accattivarne l’attenzione: vengono presentati i personaggi principali, e si tratteggiano alcuni di quelli secondari e la situazione di contorno in cui si muovono; è tuttavia troppo presto per riuscire a farsi davvero un’idea di chi siano questi altri ospiti dell’albergo. Il ritmo tutto sommato lento e ponderato funziona soprattutto grazie alla resa filmica degli ambienti, che unisce i toni (letteralmente) freddi del nevoso ambiente islandese con le linee rigide di un futuro in cui l’AI è ormai parte integrante e necessaria della vita quotidiana. L’altro grande asso nella manica della serie è l’ottima portata scenica di Emma Corrin, la prima Diana di The Crown. La giovane attrice ha l’arduo compito di reggere su di sé il peso della serie, per la centralità assoluta che ha all’interno di questa narrativa. Corrin, però, riesce a farlo con grande maestria e sostiene questi due episodi grazie alla forza della sua interpretazione. La sua Darby si rivela forte e debole al contempo, timida ma determinata. Basta poco a Corrin per mostrare la complessità di un personaggio che è posta, nonostante la sua giovane età, al centro di eventi personalmente dolorosi e difficili da gestire.
La serie avrà sette episodi per distendere appieno il proprio racconto. Stando a questi primi due, però, la sensazione che se ne ricava è quella di una serie che sa dove vuole andare a parare, che presenta il proprio racconto senza ricercare a tutti i costi il colpo di scena ma prendendosi il tempo per mostrare le proprie carte. Ci sono tutte le ragioni, quindi, per dare a questa serie una possibilità, soprattutto se si apprezza il genere giallo. Sembra proprio che siamo alle prese con un prodotto ben confezionato e pronto a catturarci nella propria narrazione.
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