Sette stagioni, sette anni di evoluzione della brava moglie: quanto si può cambiare in un tempo simile, così lungo e al contempo così breve? Con quale potenza un evento della propria vita può dare il via ad un percorso di metamorfosi, tanto da farci arrivare all’esatto opposto del punto da cui siamo partiti?
Sono queste (e non solo) le per nulla superficiali domande che questa serie, e questo finale in particolare, costringe a porsi. Perché se è vero che ogni persona conserva delle caratteristiche che difficilmente perderà nel corso della vita, è altrettanto vero che tutto quello che viviamo – nella buona e nella cattiva sorte – ci spinge verso direzioni imprevedibili, facendo di noi persone anche molto diverse da quelle che eravamo un tempo.
Over seven years could you completely remake your character?
Could a victim become a victimizer?
– Robert e Michelle King – Lettera degli autori sul series finale
I coniugi King, come loro stessi hanno fatto notare, si sono rivolti pubblicamente agli spettatori solo in due occasioni, ed è proprio da qui, dal fondo, che si deve partire per comprendere meglio questa ultima puntata – tanto riuscita sulla carta quanto difettosa nella resa finale.
Due occasioni, dicevamo: la morte di Will, talmente inaspettata e improvvisa da costituire un vero shock, nonché uno dei momenti più alti della televisione degli ultimi anni; e questo finale, con la scelta di chiudere in modo così amaro per la protagonista. Entrambi i momenti hanno portato i King a parlare del concetto di base della serie, che è ed è sempre stato nelle loro menti “the education of Alicia Florrick”: è così che giustificarono allora l’uscita di scena di un personaggio ritenuto fondamentale per la serie, e così hanno giustificato la chiusura del cerchio di quest’ultimo episodio, con uno schiaffo che richiama quello dato dalla stessa Alicia a Peter nel pilot.
“La vittima diventa carnefice”, quindi? Il percorso della nostra protagonista, osservato da questa prospettiva, diventa un quadro chiarissimo, una freccia che parte da un punto A e giunge ad un punto B in modo calcolato e preciso, con la vita di mezzo a fare da campo di sperimentazione; a fare da crescita, da educazione, appunto, della donna.
La decisione di Josh Charles di abbandonare la serie avrà di certo cambiato i piani dei King, e non sapremo mai probabilmente cosa ci avrebbe riservato The Good Wife in sua presenza; eppure, da questa decisione fuori dal controllo degli autori, ne è emersa – sulla breve distanza, della lunga se ne parlerà più avanti – una costruzione eccezionale, volta a portare Alicia “verso una nuova incarnazione”, come si disse allora. Oggi che l’obiettivo aveva invece tutto il tempo di essere dipanato, e poteva avere un terreno preparato a farci arrivare decisamente meglio a questo finale, si ha la sensazione che qualcosa sia sfuggito di mano. Non è sbagliato quello che abbiamo visto, anzi: è profondamente giusto, ben orchestrato a livello di struttura; ma è difficile finire la puntata senza sentire un senso di forzatura, come se il punto a cui siamo arrivati fosse quello giusto ma il modo in cui ci siamo giunti non fosse stato abbastanza convincente ed elaborato.
God, you have so little self-awareness.
I piccoli-grandi cambiamenti di Alicia Florrick sono stati sotto gli occhi di tutti per anni: l’abbiamo vista, soprattutto dopo la morte di Will, affrontare tantissime variazioni, fino a giungere a quest’ultima settima stagione in cui in alcune puntate i suoi mutamenti interiori erano così tanti da non essere mai approfonditi veramente. Il suo passaggio da uno stato d’animo all’altro, così frenetico ed esagerato, ha fatto sì che il vero percorso – quello di fondo che doveva condurre a questo finale, quello insomma della trasformazione in potenziale victimizer – passasse un po’ più in sordina. Certo, si è visto, soprattutto nelle ultime puntate: grazie anche ad un’ottima Julianna Margulies, abbiamo potuto osservare una Alicia più cinica, più risoluta e determinata, ma anche meno capace di comprendere i limiti della sua stessa etica. Tuttavia, per giungere a questo, si è dovuti passare attraverso un caso come l’ennesimo “lo stato contro Peter Florrick”, tanto necessario a livello di organizzazione formale (per ricollegarsi alla prima stagione) quanto ormai ripetitivo, poco interessante e neanche particolarmente ispirato – si pensi a tutti i casi che The Good Wife ci ha presentato in questi anni e a quanto invece questo sia stato trattato in modo privo di guizzi e di entusiasmo nella scrittura.
Insomma, nell’arco di una stagione siamo passati da una prima parte poco riuscita in generale, ad una seconda caotica, confusionaria e in cui Alicia ha vissuto più mutamenti interiori che nelle restanti sei annate; all’interno di questa ultima sezione, una manciata di episodi finali volti evidentemente a portarci qui, ad un parallelo tra il Peter della prima stagione, quello a cui Alicia dava quello schiaffo così significativo, e la Alicia di questo finale, che riceve lo stesso trattamento da Diane. Ma possiamo davvero paragonare le due cose? Possiamo davvero credere in un ribaltamento da vittima a carnefice quando il terreno di gioco è così impari?
Di sicuro la mossa di Alicia nei confronti di Diane è stata tutto fuorché educata, è stata egoista e volta solo a vincere (anche perché di Peter non le importa più molto, e non sarà certo un anno di assenza dal college da parte di Grace a convincerci che sia quello il motivo della sua azione); ma è un tradimento nel senso che i King hanno voluto comunicarci?
Forse, se invece di perdere intere puntate ad inizio stagione e a fare gli ennesimi giri di valzer alla Lockhart/Agos & Lee ci si fosse concentrati sulla costruzione di qualcosa di più solido (un vero, grande conflitto tra Diane e Alicia, ad esempio, e non le solite scaramucce figlie di banali fraintendimenti), allora questo finale sarebbe arrivato come una giusta conclusione ad un giusto percorso; una fine terribile, certo, ma vera e sentita.
Tra le diverse critiche che si sono lette online, è interessante osservare il punto di vista di Michael Slezak di TvLine che parla di “trionfo di struttura sulla verità”: benché il suo giudizio sia particolarmente aspro, c’è del vero in quanto dice, perché è proprio come se i King avessero a tratti perso di vista il loro obiettivo e si fossero persi dietro e dentro delle dinamiche perditempo senza invece costruire, mattone dopo mattone, un vero supporto per questo finale, che è di per sé forse una delle opzioni più interessanti, nella sua cupa riflessione sulla natura umana.
“Things used to be simpler.”
“No. Things were never simple.”
Al di là della più o meno riuscita del finale in quanto tale, la modifica del comportamento di Alicia soprattutto nelle ultime puntate – per quanto forse un po’ forzata – c’è stata, ed il confronto con Will serve anche ad evidenziare questo. È chiaro che il ritorno di Josh Charles sia stato scelto anche per motivi extra-diegetici (qualunque spettatore avrebbe voluto vedere i due insieme per un’ultima volta), ma ciò che ha funzionato e che ha evitato che il tutto prendesse una piega didascalica e di mero fan-service è stato proprio il confronto tra la vecchia Alicia e quella nuova. Le cose, come dice Will, non sono mai state semplici: era lei quella diversa, che aveva una morale ben più precisa e che quindi prendeva con più facilità determinate decisioni perché per lei non c’era spazio per altre scelte. Ora che invece tutti i contorni della sua etica sono sfumati, paradossalmente diventa più difficile capire cosa fare: le strade che si parano davanti ai suoi occhi sono molte di più, ed è più complesso capire quale sia quella giusta da prendere.
È per questo che cercare di capire da chi vuole tornare a casa diventa molto più difficile: l’Alicia di un tempo avrebbe scelto Peter, perché era quello che doveva fare, e avrebbe sofferto per quell’amore sempre in attesa, “romantico proprio perché non è mai accaduto”. Ora invece può fare una scelta, e chissà se l’assenza finale di Jason sarà da interpretare come definitiva o solo momentanea (del resto nell’ultimo confronto tra i due l’uomo non sembrava poi così propenso ad abbandonarla). Eppure quello che l’ultima scena vuole dirci è che Alicia, dopo aver tanto combattuto, sembra essere costantemente fuori tempo: è stata debole quando veniva trattata male e sfruttata, e ora è fin troppo dura e cinica; un tempo avrebbe dovuto e forse potuto scegliere la storia d’amore, e quando l’ha capito è stato troppo tardi. È quindi inevitabile – in una visione che è pessimistica ma anche profondamente umana – che, quando lei decide di non essere più l’altra mano che stringe la solita mano da supportare, di nuovo la vita la lasci solo con un pugno di mosche.
Non solo: la mossa di Eli, accettata alla fine anche da Peter, di dirottare tutti i donatori verso Alicia senza avere nemmeno la sua opinione è la dimostrazione di come purtroppo sarà impossibile per lei – a meno di cambi radicali – uscire da un mondo che l’ha cambiata drasticamente, con tutto quello che di positivo e soprattutto negativo questo ha comportato.
He’s your client. That’s why you care.
Se c’è un difetto che ha avuto questa stagione, ma anche metà della scorsa, è stato l’atteggiamento disinteressato nei confronti di personaggi storici come Diane e Cary. La prima, in qualche modo, è quasi sempre riuscita a cavarsela con delle sottotrame a lei collegate (il suo orientamento politico, i suoi ideali, il legame con Kurt) e soprattutto grazie alle sempre eccezionali performance di Christine Baranski, di cui porteremo nel cuore l’inconfondibile risata e il suo contributo ad una delle coppie lavorative, Diane e Will, più belle della televisione.
Purtroppo lo stesso non si può dire di Cary, che a seguito della sua vicenda giudiziaria – l’ultima vera storyline ben scritta – è stato sballottato senza alcun progetto a lungo termine. Ne è risultato un personaggio fastidiosamente sottoutilizzato, a cui si è cercato di dare una conclusione portandolo ad allontanarsi da quel mondo così competitivo per fargli trovare la sua “vera vocazione” nell’insegnamento. Per quanto, di nuovo, la scelta non sia di per sé sbagliata, mostrarla in questo modo e con questa rapidità ha dato l’impressione di un contentino da dare agli spettatori, che probabilmente si aspettavano ben altro per il personaggio di Matt Czuchry.
In the end, the story of Alicia isn’t about who she’ll be with; it’s about who she’ll be.
– Robert e Michelle King –
È difficile valutare una puntata di questo tipo, che contiene tante cose giuste ma anche diversi errori, frutto di scelte precedenti sbagliate e di evidenti stanchezze nella scrittura; è quasi impossibile, poi, dare una valutazione unitaria della serie, che ha saputo toccare punti elevatissimi e che non possono essere dimenticati, e che al contempo è riuscita in diverse – purtroppo – occasioni a deludere e anche ad annoiare.
La stagione è stata purtroppo la peggiore della serie, che era riuscita a riprendersi dalla morte di Will con ritrovata forza e che aveva prodotto una prima parte di sesta annata quasi impeccabile; dal già ricordato seguito del processo di Cary, le vicende e i personaggi stessi hanno cominciato a vagare senza una meta ben precisa, e questo ha purtroppo condotto ad un’ultima stagione ben al di sotto delle aspettative.
The Good Wife rimane, ad ogni modo, una serie storica, che, pur con un’impostazione tradizionale come quella dei 22 episodi e con un canale generalista a trasmetterla, è riuscita comunque a farsi strada e a durare per sette anni con un livello per la gran parte del tempo medio-alto.
La capacità di delineare personaggi secondari ottimi (basti pensare a tutti i giudici, o anche ad avvocati come Elsbeth Tascioni o Patty Nyholm) è stata una delle caratteristiche che più verranno ricordate di questa serie, che è riuscita a raccontare meglio di tante altre gli aspetti contemporanei più assurdi e complicati della giustizia americana.
Non si dimenticherà l’eleganza della scrittura, in momenti drammatici e anche in quelli comici, e nemmeno la bellezza di episodi come “Hitting the Fan” o “Dramatics, Your Honor”; purtroppo non si scorderanno nemmeno le cadute, che, si sa, fanno male quanto più si è arrivati in alto prima.
Ma di certo un personaggio come quello di Alicia Florrick rimarrà, nel bene e nel male, un simbolo: non solo di un grande personaggio della televisione, ma soprattutto di una donna che dal ruolo passivo di compagna silente ricostruisce la sua vita quando ormai tutto sembrava perduto, e lo fa con una determinazione che certo non le risparmia il fallimento, ma sempre con la voglia – mai davvero persa – di ridisegnarsi e di cambiare ogni giorno.
Voto episodio: 7½
Voto stagione: 6½
Voto serie: 8
– Ringraziamo la pagina Facebook The Good Wife Italia per l’apprezzatissima collaborazione negli ultimi anni.
Una bellissima recensione. Complimenti.
Mmmm, vedendo l’ultimo episodio non ho avuto tanto l’impressione della vittima che diventa carnefice, ma di un’antinomia (irrisolta) tra un futuro politico-professionale e una dimensione affettiva finalmente completa. Il finale è sospeso e sembra indicare la difficoltà a conciliare questi due aspetti, ad integrarli nella quotidianità della vita di Alicia. In fondo, ciò risponde al vero: ritrovarsi alle soglie dei 50 anni senza una relazione consolidata da tempo e con una carriera professionale intensa e “assorbente” provoca quasi necessariamente qualche squilibrio e una grande difficoltà nella ricerca di una vita “piena”.
L’ultima stagione (ma anche la seconda parte della sesta) sono state le più ondivaghe, come se i King andassero “a braccio” e avessero perduto la loro direzione narrativa. Anche il personaggio di Alicia ne ha risentito, ma non tanto per la molteplicità dei suoi cambiamenti interiori. Semplicemente, se la narrazione perde la sua bussola, il suo senso profondo, anche i personaggi principali ne risentono e smarriscono la loro tridimensionalità. Mezza stagione buttata via (la carriera “politica” di Alicia) lo stanno a testimoniare.
In ogni caso, ho seguito la fiction con interesse e, a tratti, con passione: TGW si è rivelato uno dei prodotti migliori e più fruibili della televisione generalista. Un’opera elegante, ben scritta (almeno le prime cinque stagioni), con caratterizzazioni eccellenti e un pizzico di snobismo “democratico” che, in questi tempi dominati da xenofobie, muri, lotte di potere spacciate per guerre sante, erosione dei diritti, non guasta per nulla.
Non so quale fosse l’obiettivo dei King con questo finale anticlimatico e forse nemmeno mi interessa. La verità è che l’eccezionalità di TGW non è mai stata nella trama orizzontale quanto in tutto il resto. Quindi non c’è da stupirsi se nell’ultima puntata, ovvero quella che per eccellenza deve chiudere la trama orizzontale, il livello non appare all’altezza. 9 alla serie, 7 all’ultima stagione, sv al finale, per me.
” 9 alla serie, 7 all’ultima stagione, sv al finale, per me ”
Quoto Genio 🙂
Complimenti Federica per la recensione bella e onesta. Come avevo scritto non molto tempo fa, a me sembra che i King abbiano perso l’Idea narrativa lungo la strada.
La serie nel suo complesso resta molto buona, in ogni caso.
@Giacinto & Teresa: Grazie a entrambi!
@Writer: secondo me l’intenzione di base di creare quel passaggio vittima/carnefice era una buona idea, ma, come ho cercato di spiegare, non credo che sia stato fatto in modo completo. Quindi sì, ecco, non si riesce a cogliere interamente quell’obiettivo che i King hanno poi esplicitato nella lettera.
Ora che è finita posso dire con tutta franchezza: era ora! Non ne potevo più del tira e molla tra avvocati – sempre quelli, del fuori e dentro dallo studio, dei personaggi che erano ormai da troppo tempo diventati solo delle macchiette – ogni tanto avrebbero potuto dare un po’ di spessore ai vari Lee, Howard, Matan e tutti gli altri – dei fraintendimenti, delle parole non dette, del “we have to talk”, dell’opportunismo di questa donna, dell’aspettare sempre il momento giusto, della sua finta volontà di indipendenza, del giostrarsi tutti gli uomini ed usare tutte le donne, tutte, figlia compresa.
Lo schiaffo di Diane era fortemente dovuto, l’unica cosa onesta da qualche stagione a questa parte.
Bene. Alicia Chiappasecca Florrick è rimasta sola.