C’è un motivo se Ricky Gervais è tanto amato dal pubblico: il comico inglese si è fatto una reputazione con il suo cinismo e il suo particolare tipo di humour diretto a dissacrare e decostruire ogni argomento di cui parla. È questo uno dei motivi che rende After Life un progetto tanto vicino quanto estremamente distante dal suo solito stile; una serie apparentemente di facile lettura ma che è, in realtà, molto stratificata e che, piaccia o no, è capace di smuovere i sentimenti dello spettatore.
La risata e il pianto, in fondo, non sono due reazioni fisiologiche così diverse, eppure le percepiamo come diametralmente opposte: entrambe sono una risposta dell’organismo ad un evento esterno – che sia una battuta di spirito o una brutta notizia – ed entrambe sono provocate da stimoli del cervello a volte involontari. Le risate forzate e le lacrime simulate sono relativamente facili da scoprire proprio perché nelle versioni autentiche di questi due movimenti c’è una sinergia particolare, un elemento riconoscibile, difficile da spiegare a parole, ma che After Life è stata eccellente a veicolare con la sua prima stagione. Con i sei episodi che la compongono Ricky Gervais si è messo emotivamente a nudo e si è esposto con una delicatezza che, per chi lo conosce solo tramite i suoi spettacoli, risulta totalmente nuova e inaspettata; una dimostrazione efficace del suo grande talento. La seconda stagione della serie riprende proprio da dove si era interrotta la prima, con Tony che cerca di (soprav)vivere al lutto improvviso della donna che amava, sempre in bilico tra pulsioni di morte e ricerca di motivi per andare avanti.
“I’m on the top of the world lookin’ down on creation
and the only explanation I can find
is the love that I’ve found ever since you’ve been around
your love’s put me at the top of the world”
The Carpenters – Top of the World
In realtà, un piccolo passo Tony l’ha già fatto; il finale del primo ciclo di episodi portava il protagonista a scegliere la vita al posto della morte, a non smettere di lottare nonostante ogni minuto che passava sembrasse sempre più insignificante se paragonato alla felicità dei momenti in cui la moglie Lisa era ancora viva. Un piccolo passo che, però, intelligentemente Gervais non ci propina come la realizzazione finale di un processo: non è la fine del percorso di Tony ma un semplice inizio. L’elaborazione del lutto di una persona che è stata così importante e che scompare improvvisamente non può essere risolto in un singolo momento, ma deve essere il risultato di piccoli passi continui, un perseverare nel trovare le piccole gioie che può darti una vita apparentemente svuotata di significato. Piccoli momenti di felicità che possono essere, per esempio, evitare di essere scortesi con tutti – come Tony invece faceva – o provare a creare dei legami con persone che riescono a intercettare il proprio stato d’animo anche solo per un attimo – Roxy e Pat il postino. Il lungo montaggio musicale che introduce la seconda stagione vuole sottolineare proprio questa dinamica: ognuno riprende la sua routine, sembra che non sia cambiato niente ed è proprio questo il punto. La cosa più difficile dell’andare avanti è continuare a farlo giorno dopo giorno.
C’è chi ha visto in questa specie di reset narrativo un punto di debolezza di questa seconda stagione, ma non lo intepreterei allo stesso modo: le situazioni possono ripetersi, uguali e uguali ogni volta, ma i personaggi che le vivono cambiano, crescono e maturano la loro visione del mondo di conseguenza. Il Tony che vediamo è una persona completamente diversa da quello che avevamo imparato a conoscere: cerca di essere gentile con tutti – per quanto possibile – e non riversa più sul prossimo il suo dolore. È un uomo più consapevole delle difficoltà che tutti attraversano, meno egoista e meno antipatico nei suoi modi di fare. E tuttavia è ancora alla ricerca di un appiglio nella disperazione che vive ogni giorno: la relazione con Emma, che poteva essere un’ancora di salvezza, è meno banale di come poteva sembrare dopo il finale della prima stagione e il rapporto tra i due deve attraversare diverse difficoltà e limiti emotivi – soprattutto da parte di Tony – per poter poi culminare nella struggente inquadratura che chiude la seconda annata. In fondo sia Tony che Emma hanno un passato – sono entrambi piuttosto avanti con l’età e nella vita di lui c’è il ricordo di Lisa – e non è facile trovare il compromesso che porti alla felicità di entrambi: sarà la donna a fare un passo indietro e ad accettare il “Groundhog Day” proposto da Tony, un gesto che gli salva – letteralmente – la vita.
“And if I had to live my life over again, dear
I’d spend each and every moment with you”
The Commodores – Three Times a Lady
In tal senso la metafora dello scorpione e della rana raccontata da Penelope è più che azzeccata per delineare le caratteristiche di Tony che pensa dapprima di essere lo scorpione, che per sua natura non può evitare di fare e farsi del male, finché non gli viene fatto notare di essere più simile alla rana, disposta a fidarsi degli altri nonostante ci siano chiare ed evidenti possibilità che questo causi dolore. Può essere questo un valido motivo per andare avanti? Si può proseguire la propria esistenza anche di fronte ad un dolore incancellabile solo cercando di migliorare la vita degli altri? Anche quando la mancanza dell’unica persona capace davvero di capirti ti porta a vivere più nel passato che nel presente, continuando a vedere, a ripetizione, i video in cui era ancora viva? After Life non vuole dare risposte semplici: un momento Tony sembra essere migliorato e aperto alla vita, un momento dopo tira fuori un flacone di sonniferi da sotto il divano; convivere con il dolore vuol dire accettare alti e bassi che non possono essere controllati, che non possono essere “curati”, ma che vanno presi così come sono. Solo stringere dei legami può aiutare a contenerli e superarli: non per niente sono Brandy, il suo cane – di certo l’essere vivente a cui Tony è più affezionato –, e l’arrivo di Emma a impedire al personaggio di Ricky Gervais di crollare definitivamente.
Ma le vite degli abitanti di Tambury non girano tutte intorno a Tony, anzi, questa seconda stagione mette in evidenza come tutti i personaggi affrontino i loro personali demoni anche dietro un’apparenza di normalità. Dal matrimonio in crisi di Matt alle strane dinamiche che regolano la nuova vita familiare di Lenny – con James, figlio acquisito, che è di diritto il personaggio più divertente della stagione – fino alla tenerezza di Sandy che ama il suo lavoro al giornale. Persino il carattere volgare, portato all’estremo, dello psicologo riesce a inserirsi bene nell’aura mista di imbarazzo e weirdness creata da Gervais, che sa come dare spessore a personaggi importanti e allo stesso tempo lasciare che le macchiette comiche svolgano la loro funzione, senza cercare di umanizzarle ma sfruttandole per dare risalto ad altri aspetti dello show. Lo stesso dicasi per gli “scoop” del Tambury Gazette, sempre divertentissimi e legati al momento emotivo dei personaggi – dal padre di famiglia che si identifica in una bambina di otto anni alla donna con una dipendenza dalla chirurgia estetica che non riesce a esprimere i propri sentimenti.
La seconda stagione di After Life accompagna lo spettatore a bordo di un ottovolante emotivo sul quale, se ci si lascia trasportare e non si ha paura delle altezze, si possono scoprire relazioni sincere, amicizie improbabili, personaggi esilaranti e, soprattutto, un percorso di convivenza con il dolore rappresentato in modo tutt’altro che banale.
Voto: 8 ½
Perfettamente d’accordo sull’evoluzione di Tony, il quale non è regredito, come ho letto in qualche critica, anzi si nota molto bene il suo percorso travagliato e non lineare, che era forse la cosa più difficile da portare avanti in questa stagione e sono felice che Gervais ci sia riuscito. Fantastiche le varie storie da pubblicare sul giornale, da quelle più divertenti a quelle che portano a una riflessione (sia nel protagonista che nello spettatore), così come diversi personaggi secondari. Come già nella prima stagione speravo in un po’ più di spazio per Sandy (magari una scena a casa sua). La cosa che forse apprezzo di più sono i vari luoghi in cui si svolgono le vicende: sempre gli stessi, semplicissimi (la panchina al cimitero, il piccolo ufficio, l’uscio della casa di Tony) e che quindi secondo me restituiscono proprio un senso di famigliarità e ci fanno avvicinare ai personaggi. La chiusura con Sufjan Stevens mi ha steso. Bellissima serie (incrocio le dita per una terza stagione)
In effetti Sandy rimane sempre un po’ sacrificata, anche se i suoi scambi con Tony in questa stagione sono stati favolosi. La costruzione di Tambury come un microcosmo a sè stante (non ci sono praticamente mai riferimenti a livello spaziale che vadano oltre i confini della città) è di fatto uno degli elementi migliori della serie, come dici tu rende tutto più familiare, intimo, e permette di empatizzare subito con questi personaggi assurdi e pittoreschi, persino quelli più sgradevoli come lo psicologo o Brian.