Siamo giunti al termine della terza stagione di America Crime Story: Impeachment e in questo gran finale vediamo accadere davvero la parte di “impeachment” come evento storico, un momento che ha inevitabilmente cambiato la politica USA, ed insieme anche il modo in cui le persone hanno iniziato a guardare alla politica. La cosa più importante che ha fatto la serie è stata infatti unire alla cronologia con cui si sono susseguiti i fatti e i movimenti intorno alla politica con il tentativo di svelare – senza banale retorica – quale sia stato l’impatto che ha avuto lo scandalo Lewinsky sull sguardo del mondo, al suo modo di intendere e percepire la politica, forse ancora non totalmente consapevole in quel momento della del segnale di svolta che ha segnato, sia per il partito democratico che per gli anni successivi all’epoca “clintiana”. Questa volta è il momento di portare alla ribalta coloro che per la storia sono apparse come co-protagoniste dell’evento e banali effetti collaterali.
Il rapporto tanto desiderato dal giudice Starr e dal suo team, il lavoro di quattro anni di indagini, interviste/interrogatori, azioni più o meno lecite o comunque davvero al limite, arriva finalmente al Campidoglio e in pochissimo tempo sarà la lettura più appassionante per buona parte del mondo occidentale. Le situazioni privatissime vissute dalla giovane Monica Lewinsky negli uffici della Casa Bianca assieme all’uomo più potente del globo sono ora di dominio pubblico. Si tratta del secondo punto di non ritorno e di svolta del grande scandalo, segnato poco tempo prima dalla dichiarazione menzognera di Clinton in mondovisione che negava con fermezza qualsiasi coinvolgimento sessuale con la ex stagista – l’episodio “The Assassination of Monica Lewinsky” rimane forse il migliore della stagione. E nonostante l’inizio così concentrato sullo sfaldarsi della presidenza Clinton e la grande onta di essere il secondo presidente degli USA ad essere messo in stato d’accusa, ecco che l’episodio ancora una volta non si concentra sulle dinamiche di trattative, sulle manovre legali o di stato che porteranno alla salvezza della sua presidenza, ma continua a fare quello che sa fare meglio: raccontare le donne e i riflettori.
Infatti il progetto di Murphy non ha mai davvero avuto l’intenzione di raccontare il solo processo legislativo che gli dà il nome, quanto invece provare a mettere in scena una disfunzione molto più grande della macchina politica statunitense (in questo caso, ma non solo) e della società in generale, racchiusa in una delle frasi più iconiche di Linda Tripp rivolta al suo avvocato: “I trusted our institutions!” Fino al momento della testimonianza nel processo di Paula Jones, Clinton non capisce davvero il peso e la gravità delle accuse che si iniziano a concretizzare a suo carico, tanto che mentre si prepara con il suo entourage per rispondere alle domande di Starr e dei suoi, lo sentiamo elencare i nomi ed i ruoli ricoperti dalle donne del suo governo. Ed è proprio questo il tema principale della serie: descrivere in maniera inequivocabile come il dominio dell’uomo maschio, bianco, etero ed abile abbia effettivamente dominato il mondo, perché nel momento in cui dà spazio alle “sue” donne, lo concede, lo permette, e quindi in qualche modo ne autorizza l’esistenza, ché senza questa validazione non avrebbero neanche un angolino dove rifugiarsi – perché è sempre un lui a dettare chi, quando e come. E “The Wilderness” non a caso si concentra su questo tipo di potere, la sua potenza, i suoi apparenti non-limiti e la percezione che ne ha il mondo – uomini o donne che siano.
Buona parte dell’episodio infatti si concentra su una bellissima costruzione a chiasmo, dove vengono sovrapposte le coppie Hillary/Paula da un lato e Linda/Monica dall’altro. Al bellissimo servizio fotografico di Hillary per Vogue, fotografata per l’occasione da Annie Leibovitz, corrisponde il servizio di Paula Jones per Penthouse; la prima è immersa nella raffinata eleganza dei locali della Casa Bianca e avvolta in un abito di haute couture, l’altra gira in una fatiscente villa con brutti abiti di poliestere per poi alla fine togliere anche quelli. Poco dopo, la seconda bellissima sovrapposizione sarà tra l’evento di Monica circondata dai suoi fan che ne reclamano l’autografo su una copia del suo libro, e Linda Tripp, che, rimessa a nuovo dalla generosità di Lucienne, in un locale molto riservato ma non troppo distante, rilascia un’intervista esclusiva dopo tanto tempo lontana dalla stampa. Da un lato c’è quindi la celebrazione di Monica, ormai diventata suo malgrado una beniamina in USA, protagonista di un romanzo che è la sua stessa vita – l’autore, come viene detto più volte, è Andrew Morton, lo stesso del famoso libro sulla principessa Diana; dall’altro una rinascita molto meno caotica e dalle luci più soffuse di colei che rappresenta la villain di quella vita, di quel romanzo. In modi completamente diversi, sono tutti e quattro momenti di sconfitta, proprio perché hanno in comune quella matrice maschile e patriarcale che con il suo potere di validazione può scegliere se portare alla ribalta (Hillary), che con il suo opposto può determinare la creazione di un mostro pubblico (Linda Tripp), creare un’anti-eroina (Monica Lewinsky) o relegare nell’oblio (Paula Jones).
Senza voler fare una classifica di chi sia più o meno vittima, è sicuramente la parabola di Paula Jones quella che colpisce maggiormente, forse perché oltreoceano la sua popolarità è molto minore rispetto a quella delle altre tre donne menzionate. Oltre infatti ad essere la prima vittima degli abusi sessuali di Bill Clinton a farsi avanti, lei è vittima anche di un sistema para-politico rappresentato da Susan Carpenter-McMillan che la utilizza letteralmente per i propri scopi di propaganda conservatrice. Paula finisce sola, senza un lavoro, senza prospettive, affogata da problemi legali e fiscali, con un figlio da mantenere e la derisione del mondo che le rende difficile guadagnare persino con un’assurda linea telefonica come “celebrity psychic”. Lo schiaffo finale sarà l’abbandono di Susan che, nel momento in cui non trae più alcun beneficio dalla sua protetta, che ha cambiato, modificato, snaturato per renderla “presentabile”, taglia tutti i ponti quando lei poserà nuda per la rivista Penthouse. Hillary Clinton, nel frattempo, viene incoraggiata a candidarsi al Senato. Quello che a tutti gli effetti potrebbe sembrare il grande risultato atteso, il giro karmico che dalla peggiore delle situazioni ecco che fa comparire la dovuta ricompensa, appare in realtà come una briciola, perché se il suo destino era davvero fare politica, perfetta stratega di comunicazione e manovre, l’energia spesa a sostenere il marito sembra il tempo perso di una donna destinata a brillare da sola, senza che dovesse necessariamente passare dalla fase ancillare della First Lady. Uno dei passaggi più belli dell’episodio è infine una scena in cui Monica inquadrata per le vie di New York, sta tornando a casa con un mazzo di fiori e passa davanti ai manifesti della campagna politica di Hillary, per cui il chiasmo si sposta nuovamente, creando una linea sottile ma ben visibile tra la donna forte e destinata a grandi cose, e la ragazzina raggirata dal Presidente degli USA. Monica non se ne cura troppo e tira dritta verso il suo appartamento ancora pieno di scatoloni, indaffarata a prepararsi per l’evento dedicato al suo libro, cioè indaffarata a vestire ancora una volta i panni della ex-stagista la cui vita privata è stata data in pasto ad un pubblico di voyeur.
Ed è poi con una magistrale costruzione finale fatta sul personaggio più difficile di tutti, che il tema principale arriva nuovamente dritto al pubblico dello show. Il racconto che Linda fa a sua figlia sul padre traditore, ma apparentemente morigerato e rigido, adorato da lei ragazzina e supplicato fino all’ultimo di non lasciare il focolare domestico, fa il paio con la sua intervista finale, dove abbandona le velleità di correttezza e ricerca della giustizia per arrivare al nocciolo della questione: il mondo ha additato lei come la carnefice di Monica, quella che l’ha data messa sulla berlina pubblica e ne ha reso la vita impossibile, ma quando dice “I know it looks horrible. I know it looks like a betrayal. But she was his victim. He caused all this. He did.” va dritta al punto e fa centro. Ed è sempre nell’ottica della costruzione perfetta dei vari pezzi che a fare da vero ago della bilancia nella decisione presa dalla la Camera dei Deputati per cui i voti a favore dell’impeachment saranno la maggioranza, è data, non a caso, dalla voce e dall’intervento di una quinta donna, una quinta vittima letterale, quella Juanita Broderick che decide dopo vent’anni di silenzio e omissioni di parlare alle telecamere per raccontare la violenza sessuale subita tanto tempo prima. Ironia della sorte (più o meno), la donna è l’unico elemento femminile ignorato da Starr che, in maniera agghiacciante, liquida un crimine a tutti gli effetti compiuto dall’uomo che vuole vedere fuori dal Campidoglio come irrilevante, di non assoluta importanza per la sua causa – figuriamoci prenderlo in considerazione per quello che è, un reato da perseguire legalmente.
Come la prima stagione di “America Crime Story: The People v. O.J. Simpson“, questa è sicuramente una stagione riuscita su tutta la linea, dove le intenzioni erano chiare sin dall’inizio; in modo impeccabile, lo show ha saputo davvero raccontare la fine degli anni ’90, riuscendo ad incastrare le tensioni della politica interna e della politica estera, il ritorno dei repubblicani, la futura elezione del “più stupido dei Bush” e quindi l’evento che solo due anni dopo cambierà il mondo intero. Eppure, come certifica questo finale, sono questi dettagli politici, noti, indagati. In questa serie è la storia dei grandi uomini politici a diventare finalmente solo un contorno rispetto al vero fulcro della narrazione: le donne dell’Impeachment.
Voto episodio: 8
Voto stagione: 8-