Sono passati esattamente quattro anni dall’ultima – discussa e criticata – stagione di Black Mirror, la serie distopica antologica di Charlie Brooker cominciata sulla britannica Channel 4 e poi inglobata da Netflix nell’ormai lontano 2016: già nei confronti degli ultimi episodi usciti, il discorso collettivo su uno show che si proponeva di esplorare le conseguenze negative – e a volte tragiche – delle innovazioni tecnologiche e digitali nel futuro verteva sul fatto che gli scenari ipotizzati dalla serie si fossero già realizzati in maniera simile nella realtà, creando il mito del “prodotto profeta” e aumentandone a dismisura la fama e il successo.
Visto e considerato questo tema, unito al lungo periodo di pausa che si è presa la produzione prima di far uscire dei nuovi episodi, il dubbio e la curiosità sorti prima dell’uscita della sesta stagione erano relativi a come Brooker (creatore e sceneggiatore di tutti gli episodi) avrebbe interpretato attraverso le nuove storie il presente – un presente molto diverso e profondamente cambiato rispetto a quello che faceva da sfondo alle prime annate dello show. Il risultato è presto detto: la sesta stagione di Black Mirror è, quasi per definizione esplicita dello stesso autore, un modo per lanciare una nuova tipologia di storie che rompano la tradizione con il passato della serie. Almeno due episodi su tre, infatti, erano stati pensati in origine per essere lanciati sotto una nuova etichetta chiamata “Red Mirror” che dovrebbe contenere storie e racconti ispirati alla tradizione horror e fantasy piuttosto che a quella fantascientifica o distopica.
Non per niente “Demon 79”, ultima puntata della cinquina di storie che forma la sesta annata di Black Mirror, è stato anche il primo a essere scritto da Brooker, in questo caso affiancato da Bisha K. Ali – già showrunner di Ms. Marvel –, e quello che avrebbe dovuto dare il via a una sorta di serie spin-off. Ovviamente utilizzare il contenitore di una serie popolare e di successo come Black Mirror è certamente meno rischioso che partire da zero con una nuova intellectual property, per quanto legata all’originale; ecco perché per Brooker e Netflix la reazione del pubblico a questa nuova stagione è particolarmente importante, poiché permetterà loro di capire la possibilità di investire in un nuovo format.
Come per tutte le stagioni di Black Mirror – e per tutte le serie antologiche per episodi in generale – al fine di analizzarne al meglio la riuscita o meno è necessario visualizzare singolarmente gli episodi, considerandoli non un’unica installazione ma come storie a sé stanti che sono messe in ordine solo per esigenze produttive e non narrative. Come si diceva, infatti, gli episodi non sono stati scritti e girati necessariamente nell’ordine in cui li si guarda e questo non è per nulla rilevante rispetto al prodotto in generale né rispetto alle singole puntate. Per convenienza e praticità qui procederemo a parlare degli episodi nell’ordine in cui li propone Netflix.
Questa sesta stagione si apre con un episodio che richiama i temi e lo stile classico di Black Mirror: “Joan Is Awful” è, infatti, l’episodio più familiare che si incontra in questa annata poiché prende un argomento che riguarda le nuove tecnologie – nello specifico lo sviluppo e gli utilizzi delle intelligenze artificiali – e lo declina in un futuro distopico in cui sono regolarmente utilizzate. In questo caso, poi, il gioco narrativo di Brooker si sposta su un campo meta-televisivo ulteriore, in quanto nella storia appare un servizio di streaming che fa il verso a Netflix, chiamato dall’autore Streamberry, dipinta come un’azienda villain che abusa del proprio potere e delle proprie informazioni per rovinare la vita di una donna. Questo ammiccamento dell’autore britannico ai rischi e ai pericoli interconnessi al concedere troppa libertà non regolamentata ai colossi dell’intrattenimento dovrebbe essere apparentemente una sagace critica al sistema, ma in realtà a ben vedere il risultato è parecchio deludente e il graffio di Brooker non fa che fermarsi in superficie.
L’episodio, infatti, è imperniato – volutamente – di ironia e momenti molto weird che gettano alle ortiche tutta la credibilità e il reale pericolo caratterizzato da un super computer in grado di creare autonomamente e digitalmente un prodotto audiovisivo senza aver bisogno di attori, registi, sceneggiatori o in generale di esseri umani al lavoro e, soprattutto, di poterlo fare in modo selettivo rispetto alle preferenze di ognuno e ai desideri del pubblico. Intendiamoci, non si sta dicendo che l’ironia sia un fattore che non può essere utilizzato in un episodio di Black Mirror o che, più in generale, non possa essere un ottimo veicolo per lanciare dei messaggi o trattare in modo efficace un certo argomento, anzi: il dubbio è la sua efficacia in questo specifico caso, in un episodio che guardiamo sulla stessa piattaforma dalla quale vorrebbe metterci in guardia. A rinforzare l’idea di occasione sprecata c’è poi la soluzione “a matrioska” con la quale si conclude la storia di Joan/Annie Murphy/Salma Hayek, una svolta di sceneggiatura che non colpisce come vorrebbe e che sa di poco originale rispetto a quelle viste in altri episodi dello show, unita alla scelta di concludere la vicenda con una sorta di lieto fine. Quest’ultimo elemento rafforza l’idea di un episodio che vuole essere venduto idealmente come una “distopia rassicurante”, ovvero uno scenario possibile – forse imminente – ma del quale non dobbiamo preoccuparci perché tanto l’uomo sconfiggerà sempre la macchina, l’individuo prevarrà sempre sull’intelligenza artificiale, la mente umana sconfiggerà l’algoritmo.
La sensazione che traspare da “Joan Is Awful” è, in definitiva, quella di un Charlie Brooker che vuole sembrare intelligente perché fa ironia meta-televisiva sulla stessa piattaforma che gli paga lo stipendio che, allo stesso tempo, gli produce l’episodio perché l’autoironia fa bene alla propria immagine e distoglie lo sguardo dai veri temi trattati nella puntata. È un peccato perché l’argomento è attualissimo – probabilmente il più cogente tra quelli che emergono nella stagione – anche alla luce dello sciopero degli sceneggiatori statunitensi e dalle reali (e tragiche) conseguenze che l’IA applicata al mondo dello spettacolo avrà sui lavoratori del settore.
Anche il secondo episodio, “Loch Henry”, ragiona sul tema dello spettacolo e su quello che il pubblico vuole, ma lo fa attraverso il genere del true crime. Non si tratta di un episodio sperimentale girato come se fosse un vero e proprio documentario – sarebbe stato forse ancora più efficace – ma della storia di un aspirante regista che viene convinto a raccontare una torbida storia di omicidi e perversioni nella quale si scopre essere coinvolta la sua stessa famiglia. Il tema a cui si faceva accenno viene sviscerato per tutto l’episodio e trova compimento in modo abbastanza lineare nel finale: il paesino scozzese che era stato abbandonato dai turisti dopo lo scandalo del serial killer viene nuovamente preso d’assalto e diventa una meta agognata dopo l’uscita del film. Brooker qui vuole rappresentare la morbosità degli spettatori nei confronti di queste storie tragiche, di come il pubblico contemporaneo sia attirato dal successo di una produzione a discapito di quello che racconta e, anzi, più la storia è drammatica e perversa e più attira l’attenzione. Fa un po’ il verso a quando nell’episodio precedente viene spiegato il motivo per il quale le serie TV create dall’algoritmo abbiano sempre una connotazione negativa (“Joan Is Awful” ovvero “Joan è orribile”): il motivo è sempre quello di soddisfare i desideri del pubblico.
Per quanto sia un episodio godibile e che funziona nella sua interezza, “Loch Henry” è tuttavia anche l’episodio più lontano dallo stile di Black Mirror che si incontra in questa sesta stagione. Non ci sono riferimenti espliciti alla tecnologia, non dipinge nessun futuro distopico e la storia è incentrata su avvenimenti del passato – ma il passato è un tema ricorrente di questa annata. Il focus della storia diventa il protagonista e una riflessione su un genere televisivo oggi molto in voga, in particolare sul meccanismo che sta dietro il successo del true crime e di quanto sia facile dimenticarsi che le storie raccontate hanno dei protagonisti in carne ed ossa, la cui vita molto spesso è profondamente influenzata dai fatti che vengono raccontati. È questo il caso del personaggio Davis (Samuel Blenkin) che ottiene il successo tanto sperato ma al costo di aver scoperto che i genitori erano delle persone orribili: il suo sguardo vacuo nell’ultima inquadratura racconta perfettamente la voragine che si è aperta dentro di lui, mentre intorno il pubblico lo acclama e si gode il suo show.
Se “Loch Henry” era un episodio dallo stile molto lontano da quello a cui ci ha abituato la serie, “Beyond The Sea” è esattamente l’opposto; l’ambientazione, tuttavia, è una novità, in quanto la storia si svolge nel passato, in un 1969 ucronico nel quale due astronauti in missione nello spazio profondo hanno la possibilità di vivere la maggior parte delle loro vite sulla Terra collegandosi a distanza con delle loro copie robotiche. Nessun futuro alternativo, quindi, bensì un passato fantascientifico, sebbene questa scelta temporale non trovi una vera giustificazione nella trama dell’episodio se non per poter citare l’omicidio di Sharon Tate ad opera della setta di Charles Manson in quello stesso anno. Per il resto la sceneggiatura ci parla della nascita di una sorta di triangolo amoroso a migliaia di chilometri di distanza, nel quale ha un ruolo importante il sentimento della gelosia.
A sorreggere una trama non così avvincente dell’episodio e un minutaggio eccessivo rispetto alla storia narrata ci pensano le interpretazioni ottime dei tre protagonisti, tra i quali spicca un eccezionale Aaron Paul, che dimostra ancora una volta la sua maturazione artistica da Breaking Bad in avanti. Per scrivere questa storia Brooker ha dichiarato di essersi ispirato ai temi emersi con il lockdown – per quanto riguarda l’isolamento dei personaggi – e l’attenzione rivolta al lavoro da remoto. Questi temi rendono “Beyond The Sea” meno superficiale di quanto potrebbe sembrare, pur non essendo sviscerati a dovere e, anzi, individuabili solo con un livello di astrazione complesso. Il finale della storia cerca di evitare i percorsi più prevedibili – e questo è un pregio – ma non riesce a elevare la puntata dal livello medio sul quale si assesta: un episodio di Black Mirror come tanti altri, che si lascia guardare ma che non è lì per farsi ricordare.
Sul quarto, intitolato “Mazey Day”, si passerà più rapidamente: l’episodio più breve della storia dello show – solo quarantadue minuti – si iscrive in quel cambio di passo voluto da Brooker che, come si diceva, si vuole allontanare dai temi legati alla tecnologia e alla fantascienza in virtù dell’esplorazione di altri generi, soprattutto l’horror e il soprannaturale sotto il nome della nuova etichetta Red Mirror. Anche in questo caso l’ambientazione è il passato, nello specifico i primi anni 2000, e racconta la storia di una paparazza – interpretata da Zazie Beetz – alla ricerca di una diva che si nasconde dopo aver commesso un omicidio. La trama è piuttosto debole e non ci sono grandi sussulti fino al colpo di scena della trasformazione della donna in licantropo, una svolta piuttosto casuale e la cui allegoria – i fotografi si gettano come un branco di lupi sul debole corpo della donna, lei diventa un lupo mannaro e li uccide tutti – è decisamente poco appagante. Inutile dire che è l’episodio meno riuscito di questa stagione e forse dell’intera storia di Black Mirror finora.
Come si è già detto, “Demon 79” è stato il primo episodio ad essere scritto dalla stagione e il primo che Charlie Brooker ha co-scritto con un’altra sceneggiatrice. Anche in questo caso la tecnologia è un elemento lontano e a farla da padrone è il soprannaturale: in particolare la storia è una sorta di reverse-Aladdin, nel quale, invece di poter chiedere tre desideri, la protagonista deve soddisfare un genio malvagio con tre omicidi per evitare la fine del mondo. Una trama che così descritta ha dell’assurdo, e infatti lo stile adottato da Brooker e Ali gioca proprio con il grottesco e il paradossale: si affiancano momenti splatter ad altri più horror, passando però per situazioni decisamente comiche – come il demone Gaap interpretato da Paapa Essiedu che compone sulla cornetta il numero dell’inferno, il 666 ovviamente, per chiedere un’informazione ai suoi superiori.
Questo mix di generi e di toni del racconto si amalgamano bene e trovano nella paura e nella rabbia della protagonista Nida (Anjana Vasan) un ottimo catalizzatore; la condizione della ragazza, infatti, è quella di un’immigrata nel nord dell’Inghilterra durante una feroce campagna del partito conservatore nel 1979. Il senso di oppressione sociale e di emarginazione rispetto al contesto rendono sempre più realistica la sua discesa verso l’oscurità, propiziata dai consigli del demone ma anche e soprattutto da un’umanità dipinta al suo peggio. La storia narrata è coinvolgente e lo sviluppo procede a un ritmo sostenuto fino al catastrofico finale – anche in questo caso la lunghezza eccessiva dell’episodio si fa sentire, sebbene si adatti meglio al tipo di racconto rispetto a “Beyond The Sea”.
Per concludere si può dire che la sesta stagione di Black Mirror sia un elemento strano: da un lato è sicuramente migliore di quella che l’ha preceduta, dall’altro non si può essere del tutto entusiasti del livello degli episodi se si ripensa più in generale alla storia della serie. Per quanto riguarda l’abbandono di una sorta di unità tematica è facile ipotizzare come Brooker abbia scelto di intraprendere una strada diversa, abbandonando l’esplorazione del rapporto uomo-tecnologia e approfondendo la natura dell’umanità stessa messa di fronte al mondo che ha creato. Un tema ricorrente di questa stagione, per esempio, può essere individuato nel rapporto tra la persona e il pubblico, declinato soprattutto nel desiderio delle masse per la cattiveria, la violenza, il macabro e lo scandalo – il tema è esplicito nel primo episodio, viene ripreso nel secondo e si collega anche al quarto, solo tangenzialmente al quinto. Il qui presente tentativo di fare collegamenti non aggiunge né toglie nulla al valore dell’opera in sé, ovviamente, in quanto ogni episodio, come si è già detto deve essere esaminato nella sua unicità; si tratta però di un fil rouge interessante per comprendere le intenzioni dell’autore.
Quel che è certo, al di là di tutto, è che ancora una volta Charlie Brooker è riuscito a creare un oggetto audiovisivo in grado di far parlare di sé e creare disparità di giudizio enormi. Le valutazioni che si trovano sulle riviste specializzate e nei discorsi del pubblico, infatti, sono tra le più polarizzate degli ultimi tempi, da chi ha apprezzato tantissimo questi episodi a chi li ha odiati profondamente, e la cosa bella è che nessuno può permettersi di dire che qualcuno abbia ragione e qualcun altro torto.
Voto 6×01: 6
Voto 6×02: 7½
Voto 6×03: 5½
Voto 6×04: 4
Voto 6×05: 8
Voto Stagione: 6
Gli episodi, la stagione, possono piacere o meno. Ma non dovrebbero più sfruttare il nome Black Mirror. Ci.e dicevi, ormai si è intrapresa un’altra strada che non è più quella che era l’essenza di Black Mirror.
Questa stagione possiede episodi di qualità, ma solo se presi al di fuori dall’idea dello “schermo nero”, dell’uso sbagliato dell’avanguardia tecnologica.
Si continua a usare il nome Black Mirror perché porta audience, però davvero oramai siamo al di là.