Cosa vuol dire essere rilevanti nella televisione di oggi? Certo, l’innovazione del linguaggio audiovisivo è sicuramente un elemento chiave per un medium che è costituito da immagini in movimento, ma le serie televisive sono anche delle narrazioni estese, oggetti che proliferano nel tempo e nello spazio, pervasivi e persistenti, che danno vita a forme linguistiche proprie. Michelle e Robert King hanno dimostrato di saper piegare le regole del linguaggio e dell’intreccio a proprio piacimento, confezionando uno stile sempre più raffinato e progressivamente più adatto a rappresentare il contesto sociale e culturale che intendono mettere in scena.
Sotto questo punto di vista The Good Fight è un’evoluzione di The Good Wife perché gli autori, sfruttando la maggiore libertà concessa dal passaggio da CBS a CBS All Access, hanno oggi una capacità di dominare il racconto inedita, che consente loro di volta in volta di raccontare contemporaneamente sia la storia e che la Storia, includendo con decisione il reale nel finzionale.
In assoluto non si tratta di una novità perché in tanti l’hanno già fatto sia al cinema che in TV, ma la differenza è che la Storia raccontata da The Good Fight non è depositata nel passato (come nel caso di Mad Men) ma sta avvenendo sotto i nostri occhi. Solo in questa stagione la serie ha trattato questioni come la violenza delle forze dell’ordine, le politiche anti-immigrazione, i rischi della diffusione di armi tra i civili, le molestie sessuali, la profilazione sui social network, le fake news, la percezione della gravidanza sul posto di lavoro e il #MeToo.
Se c’è una voce in grado di raccontare il nostro presente in maniera acuta, mai semplificante, lontana da facili estremismi e pregna di complessità, questa è quella dei coniugi Robert e Michelle King, i quali con The Good Fight hanno creato un organismo multiforme, che sa contemporaneamente far ridere e far riflettere, raccontare storie avvincenti e creare momenti di spiazzante sospensione narrativa, giocando a una velocità inimmaginabile per le altre serie.
Do you want to come home and be alone or be with him?
Quest’ultimo episodio chiude un discorso durato due stagioni concentrandosi sulla famiglia e mettendo a confronto i legami di sangue con quelli sviluppati nel corso della vita con le persone che ci si sceglie lungo la strada. Se la madre di Colin ha già mostrato la sua esuberanza in precedenza, è la madre di Lucca a rubare la scena a tutti, anche grazie alle doti interpretative di Judith Light. Il rapporto madre-figlia delle due è ormai diventato quasi esclusivamente tossico, incancrenito in meccanismi di sudditanza e di ricatto passivo-aggressivo che limitano la capacità di giudizio di Lucca. Non è difficile mettersi nei panni di quest’ultima e sprofondare in un pozzo di inadeguatezza, sentirsi sempre lontani da un modello irraggiungibile, perdendo così la capacità di riconoscere davvero quando si è felici e quando invece è solo un autoinganno. È la vicinanza delle persone care però a riportare Lucca nella giusta prospettiva, è l’affetto di Colin, Maia e Marissa a liberarla almeno per un attimo da quella schiavitù affettiva a farla sentire, per una volta, soddisfatta e felice con la sua nuova “famiglia”.
Per quanto questa storyline possa sembrare impegnativa a livello emotivo per lo spettatore, vista la complessità del rapporto familiare descritto, a guardar bene non sarebbe completa se non fosse accompagnata da una brillantezza di scrittura inimitabile, dotata di un registro ironico che riesce ad alleggerire anche le parti più difficili. L’inizio dell’episodio è un esempio emblematico della scioltezza con cui gli autori riescono a fondere la capacità di parlare al presente e del presente affrontando questioni come la diversity culturale e il rapporto con le grandi metropoli degli Stati Uniti con un gusto per l’ironia, il ritmo e la leggerezza davvero incredibile. L’introduzione è infatti un esempio perfetto di come in The Good Fight possa passare senza soluzione di continuità da un’arringa sull’inclusività di Chicago a un’esilarante corsa d’urgenza verso l’ospedale causa rottura delle acque.
They’re out to destroy us. If ever there was a time for situational ethics, it’s now.
Il percorso di Diane, fin dallo sconcerto per l’elezione di Trump nella prima scena del pilot, si sviluppa in questa stagione in momenti di totale spaesamento di fronte a cambiamenti sociali che ne hanno sconvolto i principi comportamentali, portandola ad essere dipendente da allucinogeni, a tradire il marito e successivamente a tentare di riconquistare la propria identità con una stoica forza di volontà. Rispetto a The Good Wife, ma anche alla prima stagione di questa serie, Diane è molto meno serena, ha perso il controllo di se stessa e della propria professione, trovandosi disarmata di fronte a un mondo che credeva di dominare e da cui è messa ai margini.
Sul piano sentimentale gli autori hanno gestito alla perfezione la riconciliazione con Kurt, facendo attenzione a mostrare prima la sconcertante scoperta del tradimento nel momento dell’interrogatorio (scena caratterizzata da un uso perfetto della musica in chiave emozionale) e la rinascita del loro sentimento reciproco attraverso una meravigliosa scena in casa, quasi completamente muta, tutta giocata con grande eleganza attraverso sguardi e silenzi in grado di raccontare alla perfezione sia la complessità del loro rapporto sia la maturità dei due personaggi.
They dance and have sex wearing Trump masks.
Dal punto di vista professionale il percorso di rinascita di Diane passa attraverso il rapporto con Liz e la capacità di due donne di fare squadra, anche specchiandosi nella coppia di rivali, nella quale spicca la performance della guest star Roberta Colindrez, già apprezzatissima in I Love Dick.
Nel corso di questa stagione Diane e Liz hanno vissuto una rivalità che si è evoluta episodio dopo episodio fino a diventare una collaborazione che le ha viste sempre più unite, arrivando nel season finale a presentarsi come due donne fianco a fianco in un “two woman job” che non a caso le vede vincitrici, sebbene non nella maniera più pulita.
Diane è infatti sedotta da una figura da un lato oscuro che ha sempre combattuto, divampato attraverso una figura misteriosa che le indica la strada verso l’uscita dal caso: “follow the women”. Quando tutto sembra perduto, l’unica soluzione è adottare le stesse modalità d’attacco del nemico, colpire i tuoi simili pur di salvarti la pelle e quindi attaccare le donne proprio nel loro principale punto di rottura, sfruttare cioè le loro debolezze per uscire fuori dalla palude seguendo il proverbiale quanto cinico dettame del “meglio a te che a me”. I King sono spietati nel descrivere una trasformazione radicale del comportamento delle protagoniste, le quali hanno abbandonato in maniera irreversibile alcuni di quei principi un tempo solidissimi in favore della vittoria finale, utilizzando quindi dei mezzi tutt’altro che edificanti per giustificare un fine fatto di sopravvivenza individuale e poco altro.
You’ve had experience being victim. Share it. Use it.
I loro interlocutori sono conduttori di programmi di destra, giudici trumpiani, insegnanti di teatro pericolosamente disimpegnati, promotrici della vendita e della diffusione di armi. È in questo mondo che siamo costretti a vivere, ci dice la serie: è cioè in un contesto sociale, politico e culturale completamente diverso dal passato e soprattutto dai nostri principi che oggi dobbiamo orientarci ed è con questo che dobbiamo fare i conti. Perché è così che si fa quando si diventa minoranza. Il caos ha vinto, non rimane che resistere, imparare a interpretare il proprio tempo meglio di quanto fatto fino ad ora e trovare il modo per contrattaccare.
What does it matter if we’re a country of laws if the laws aren’t just?
The Good Fight descrive un mondo che va a rotoli, in cui tutto sembra perdere ogni senso e sfuggire ai nostri strumenti ermeneutici; una società in balia di venti populisti inarrestabili, in preda a fake news, esagerazioni senza limiti e dissoluzione di ogni principio etico. Tuttavia, finché ci sarà qualcuno in una stanza capace di proporre un’alternativa, sia politica sia culturale, a questo ordine, la speranza sarà ancora in vita. Finché ci sarà la Reddick, Boseman & Lockhart sarà possibile immaginare una soluzione, una nuova visione del mondo da contrapporre a quella dominante.
The Democrats need to stop being such pussies. We have to win.
Si fa davvero molta fatica a descrivere in modo esaustivo la complessità, la varietà stilistica e l’eleganza di The Good Fight, soprattutto perché in questa stagione i King hanno deciso di prendere di petto l’America di Trump e affrontarne le contraddizioni, mettendo in evidenza il rapporto tra politica e medialità contemporanea, la dipendenza da droghe di professionisti ricchi e istruiti, lo snaturamento dell’informazione che sta diventando sempre più infotainment quando non puro intrattenimento completamente scollato dalla realtà. All’interno di questa cornice gli autori mettono in scena la crisi identitaria di un’élite sempre più fragile dal punto di vista della rilevanza sociale e politica, ma per la quale nutrono un affetto sincero.
Cosa ci dice, dunque, The Good Fight del mondo liberal? In che modo presenta la mutazione antropologica in atto non solo della politica ma dei principi di chi ha passato una vita intera a sentirsi differente dagli altri? L’interrogativo della serie è di quelli inestricabili, perché è davvero complicato definire di volta in volta dove finisce la legittima fiducia in un mondo sempre più consapevole, istruito e “civilizzato”, e dove inizia l’atteggiamento snobistico e autoghettizzante che sta rendendo sempre più irrilevante il campo progressista americano e internazionale. Tuttavia il solo tentativo di teorizzare una strada e di farlo in modo così brillate significa posizionarsi ad altezze qualitative difficilmente eguagliabili.
In questo senso la parabola di Diane è assolutamente emblematica, non solo per il temporaneo abbandono di quell’etica che da sempre l’ha caratterizzata, ma anche per un rapporto con le armi sempre meno ostile, che a tratti ha dato addirittura l’impressione di prendere in considerazione un loro disperato utilizzo. Diane riesce a salvarsi la pelle adottando metodi che un tempo non le appartenevano, giocando sporco senza più alcun rimorso. In generale, la maggior parte delle vittorie dei protagonisti della serie, da Diane ad Adrian fino all’intero pool legato all’impeachment, non derivano dalla capacità di far trionfare la giustizia, ma da atti di furbizia, colpi sotto la cintura, dossieraggio programmatico e pugnalate alle spalle, proprio come il personaggio interpretato da Margo Martindale per cui non c’è tanta differenza tra nascondere il “pee pee tape” per utilizzarlo al momento opportuno e tradire Diane in favore di un interesse tutto personale.
The Good Fight è il più politico degli show americani ma al contempo anche quello che utilizza meglio l’ironia, senza mai sbagliare una battuta e correlando perfettamente i momenti comici con le serissime questioni prese in esame. La seconda stagione in particolare, chiusa con un episodio perfetto in ogni sua parte, ha stupito tutti superando ogni aspettativa grazie alla capacità di trovare sempre le chiavi giuste per approcciarsi a questioni non solo complesse ma anche difficilmente inquadrabili, vista la loro spiccata contemporaneità. La serie fa tutto ciò riuscendo ad essere sempre esilarante, grazie a guest star straordinarie (Elsbeth Tascioni sarà sempre la numero uno) e alla capacità di scrivere dialoghi brillanti e inventare soluzioni come la citazione di Pulp Fiction al momento della visione del pee-pee tape o il musical sull’impeachment.
Voto episodio: 10
Voto stagione: 9