Giunti ormai a un passo dal season finale, è tempo di bilanci per questa terza annata di True Detective, nel bene e nel male sempre più focalizzata nel tentativo di far rivivere i fasti del passato.
Come abbiamo già avuto modo di notare, gli episodi centrali hanno indugiato fin troppo sulla riproposizione, solo a tratti convincente, di alcuni dei marchi di fabbrica dello show di Pizzolatto – silenzi evocativi, lunghi viaggi in macchina, dialoghi dal tono esistenzialista – finendo con l’affossare il ritmo della narrazione e, ancor di più, le peculiarità di questo nuovo racconto, complice anche il minutaggio di quasi un’ora per episodio (sproporzionato rispetto al materiale narrativo). In quest’ottica “The Final Country” rappresenta un seppur tardivo momento di svolta nell’economia della stagione: forte dell’efficace cliffhanger che l’ha preceduto, l’episodio preme sul pedale dell’acceleratore, rispondendo a molti dei quesiti lasciati in sospeso circa le indagini e le vite dei due detective, nonché, in un’ottica extra-diegetica, sulle decisioni prese dal suo creatore.
Al termine di questo episodio siamo infatti ormai in grado di ricostruire con un buon grado di certezza l’accaduto, non tanto tramite le indagini ufficiali di Wayne e Roland, quanto più grazie a quelle portate avanti da Amelia, Elisa e dai due ex-detective nel 2015: appaiono ormai chiari il coinvolgimento della madre Lucy e del fratello, così come l’identificazione della coppia che si aggirava con i Purcell ad Halloween, il ruolo di Harris James nel contaminare le prove e, infine, quello del magnate Hoyt in qualità di mandante nel rapimento-omicidio. Più interessante di questo accumulo di indizi e spiegazioni è l’analisi delle conseguenze che le vicende del 1980 e del 1990 hanno avuto sui protagonisti. Dopo la seconda chiusura del caso, didascalicamente speculare alla prima, le posizioni dei due si fanno infatti sempre più ambigue e al tempo stesso più decifrabili: l’uccisione di James – in una delle sequenze più riuscite dell’episodio – va infatti a motivare da un lato la rottura tra i due, e dall’altro probabilmente la loro decisione di non proseguire con le indagini. Appare ormai evidente il ruolo di Wayne in qualità di narratore inaffidabile, portato avanti a tratti in maniera consapevole – quando mente a Elisa – e in altri inconscia. Il cliffhanger finale, in cui lo vediamo salire sulla macchina di Hoyt, sembra infatti puntare sempre di più verso un’interpretazione della sua malattia della memoria che affonda le radici nel rimosso e nel senso di colpa, in maniera molto simile a quanto visto pochi mesi fa in Sharp Objects. Il Vietnam, le uccisioni compiute durante le indagini, il rapporto conflittuale con la moglie e con i figli e, infine, forse anche la complicità nell’insabbiamento della verità, sembrano configurarsi come traumi mai del tutto sopiti che esplodono annullando i limiti tra passato e presente.
È però impossibile parlare di “The Final Country” senza menzionare quello che probabilmente rappresenta il momento più atteso dai fan della serie, ovvero la conferma che non solo gli eventi visti nella prima e la terza stagione si svolgono nel medesimo universo narrativo ma che, quasi certamente, entrambi i casi possono essere ricondotti allo stesso giro di pedofilia che coinvolge uomini di potere in grado di influire in maniera determinante sul corso delle indagini. Se da un lato tale conferma va almeno in parte a giustificare le pesanti somiglianze tra i due casi, comprensibilmente accolte da molti come un segno di stanchezza creativa da parte di Pizzolatto, dall’altro viene da chiedersi, anche e proprio alla luce di ciò, quale sia il senso ultimo di questa operazione, che si va sempre più configurando come una ri-narrazione della prima stagione, priva di una forte giustificazione diegetica. I motivi di tale scelta possono infatti essere individuati tutti al di fuori del racconto: dalla volontà di ripetere l’ottima ricezione di critica e pubblico dell’esordio dello show, a quella di voler rimettere mano al caso al fine di dare alle indagini una conclusione più soddisfacente di quella proposta in “Form and Void”, che aveva fatto storcere il naso ad alcuni proprio per il suo carattere scarsamente risolutorio. Si tratta di motivazioni non tanto discutibili in quanto tali, ma che mostrano negli esiti finora raggiunti tutte le loro fragilità: la scelta di riprendere il caso da un’altra angolazione avrebbe infatti potuto essere l’occasione per un radicale cambio di scenario, ma quello che ne è risultato è stato piuttosto una variazione sul tema di atmosfere e tematiche già viste, che hanno finito col prendere il sopravvento sugli elementi di maggior originalità della narrazione – primo tra tutti la gestione fluida delle diverse timeline. Il tutto senza contare, come abbiamo già sottolineato, che i cinque anni che separano l’esordio di True Detective da questo suo ritorno hanno rappresentato, dal punto di vista dell’evoluzione del linguaggio seriale e dei gusti del pubblico, una vera e propria rivoluzione, che conseguentemente va a porre il crime esistenzialista di Pizzolatto in una posizione davvero marginale rispetto all’odierno zeitgeist televisivo.
In attesa del finale, a cui spetterà il compito di rispondere agli ultimi quesiti lasciati in sospeso nonché, forse, di concretizzare il crossover con la Louisiana di Rust e Marty, non possiamo che considerare questa terza annata di True Detective come uno sbiadito ricordo, seppur ben diretto e interpretato, di un capitolo della televisione ormai passato.
Voto: 7-