Atlanta – Stagione 3 1


Atlanta – Stagione 3Con uno scarto di ben quattro anni dalla stagione precedente, il pluripremiato show di Donald Glover Atlanta torna con una quarta annata che, come già visto nei primi episodi, porta i protagonisti in tour per l’Europa, con un cambiamento significativo dal punto di vista delle ambientazioni e delle atmosfere – in qualche modo a noi anche più vicine e familiari – ma non dei temi trattati, continuando a disegnarsi come una serie che vuole esplorare e trattare il razzismo e la discriminazione da diversi punti di vista; ovviamente sempre con lo stile satirico e surreale che la contraddistingue.

Atlanta non è nuova a configurarsi come una serie che non fa di una trama orizzontale forte e preponderante il suo punto di forza: siamo abituati, infatti, ad episodi molto verticali, capaci di esaltare il formato televisivo del prodotto e di rendersi quasi estranei al continuum dello show. Se prendiamo, per esempio, episodi straordinari come “B.A.N.”, “Teddy Perkins” o “Woods”, li ricordiamo come puntate che possono essere tranquillamente estrapolate dal loro contesto macro-narrativo ed essere godute singolarmente senza che si perda un briciolo della loro qualità o del loro senso. Non per niente questa caratteristica della serie è stata sottolineata più volte da Donald Glover che ne ha paragonato le stagioni come degli album dai quali si possono ascoltare questa o l’altra traccia – che in questa metafora rappresentano gli episodi – in modo non per forza continuativo. A corroborare questa particolarità stilistica di Atlanta è la scelta autoriale di non proseguire in modo logico e lineare il racconto, con salti temporali, digressioni narrative, episodi nei quali i protagonisti nemmeno appaiono e tanti altri artifici di scrittura che rendono assolutamente imprevedibile la serie.

Atlanta – Stagione 3È proprio a queste caratteristiche a cui si fa riferimento quando si dice che Atlanta è una serie a suo modo unica, e questa terza stagione continua a confermare l’eccezionalità dello show nel panorama televisivo contemporaneo. A renderla diversa, tuttavia, dalle stagioni precedenti, è la scelta della writers room di inserire non un paio ma ben quattro episodi standalone nei quali i protagonisti sono personaggi inediti e totalmente slegati dal viaggio di Earn, Al, Van e Darius. Questi episodi che raccontano storie a sé stanti sembrano uscire direttamente da una serie antologica tipo The Twilight Zone – in effetti hanno quasi tutti atmosfere che richiamano la famosa serie fantascientifica – e sono stati molto criticati non per gli episodi in sé che, anzi, mantengono un livello sempre molto alto di scrittura, ma più che altro perché distoglierebbero lo sguardo da quello che interessa davvero agli spettatori, ovvero concentrarsi sulle avventure dei quattro protagonisti. In linea di massimo è vero che seguire dei personaggi che si conoscono e sui quali si è lavorato per anni è un plus per qualunque tipo di storia – a maggior ragione perché è esattamente quello su cui si basa il racconto seriale – ma è anche vero che, come si diceva, Atlanta ha sempre funzionato anche in modo diverso ed è proprio questa sua atipicità a renderla interessante e sperimentale; in ulteriore difesa degli autori bisogna sottolineare che la terza e la quarta stagione – scritte e girate insieme – sono state realizzate durante la pandemia, con possibilità logistiche più limitate e, probabilmente, con la necessità di ridurre al minimo gli attori coinvolti in singoli set.

Atlanta – Stagione 3Il primo di questi episodi “speciali” è stato il primo della stagione, “Three Slaps”, episodio che rievocava un vecchio fatto di cronaca del 2018. A seguirlo è il quarto episodio, intitolato “The Big Payback”, che si concentra sul tema del risarcimento monetario che dovrebbe essere ottenuto da tutti i discendenti di schiavi nei confronti delle famiglie che discendono da coloro che ne erano proprietari e che, quindi, ne hanno ereditato le fortune e le ricchezze. Il tema del payback è al centro di molte discussioni negli USA: l’episodio porta all’estremo le conseguenze che deriverebbero da una sentenza positiva in tal senso, creando un precedente al quale le persone si aggrappano per ottenere il suddetto risarcimento anche in modi violenti. È interessante come il punto di vista scelto da Francesca Sloane – sceneggiatrice dell’episodio che ha lavorato anche a Fargo e a The First – sia quello di un uomo bianco, come a voler immaginare quali sarebbero le reazioni e le conseguenze sulla vita di una persona che “subisce” questa sentenza e viene socialmente emarginato per crimini non commessi direttamente da lui ma da antenati che non sapeva nemmeno di avere. L’obiettivo non sembra essere né quello di creare empatia con il protagonista – un bravissimo Justin Bartha – né tantomeno quello di giustificare un risarcimento di massa così violento e feroce, bensì quello di far riflettere sulla fallacia di qualunque tipo di estremismo ideologico; è lo stesso Marshall, il protagonista, infatti, a rendersi conto verso la fine dell’episodio della ragionevolezza delle richieste di Sheniqua – la donna che gli chiede i soldi – e degli altri discendenti di schiavi che avanzano pretese, sebbene non riesca a giustificarne il modo o le conseguenze nefaste che ha avuto sulla sua vita. Come sempre succede con Atlanta, questo episodio è capace di scuotere e far riflettere, oltre che essere sagace e tagliente su argomenti così delicati senza offrire soluzioni facili.

Atlanta – Stagione 3Anche “Trini 2 De Bone” e “Rich Wigga Poor Wigga” sono esemplari in tal senso. Il primo esplora il tema del child neglect, ovvero di tante famiglie benestanti che trascurano l’educazione dei propri figli affidandoli alle cure e all’educazione delle tate. Il paradosso dell’episodio nasce quando i genitori, bianchi ovviamente, vengono a conoscenza della cultura da cui proviene la donna che per tanti anni si è presa cura del figlio dopo la sua morte, ne sono spaventati: questo crea un contrasto evidente con la percezione che ne ha invece il bambino, rispettoso e adorante nei confronti di quel mondo. L’intelligenza della scrittura dell’episodio – qui la penna è di Jordan Temple – sta anche nel ribaltare la prospettiva del problema, con i parenti della tata che rimproverano alla morta il fatto che si sia presa più cura dei bambini che accudiva per lavoro che dei suoi stessi figli.

Il secondo è un episodio girato interamente in bianco e nero e agisce su più livelli: il tema centrale è particolare e spinoso, poiché si interroga in sostanza su cosa significhi essere un nero in America. La scelta cromatica sottende la questione e contribuisce al surrealismo della vicenda: Aaron, il protagonista interpretato da Tyriq Withers, ha il padre nero ma si mostra come un bianco e passa il suo tempo con amici bianchi; nella puntata deve però dimostrare ad un imprenditore di “essere nero” per ottenere una prestigiosa borsa di studio. Il ragazzo affronta una crisi di identità che attraversa fasi comiche e grottesche – l’audizione davanti ai tre “giudici”, una sfida a colpi di lanciafiamme a scuola – e confronti poco chiarificanti con il padre – addirittura la sua prospettiva diventa quella di affermare che essere neri in America ti renda la vita più facile. Il nocciolo della questione è il ribaltamento della cultura dominante, tanto che alla fine il protagonista ambirà talmente “essere nero” che sceglierà di abbracciare totalmente quell’identità, a costo di rinunciare a se stesso. La satira messa in piedi da Donald Glover – autore completo, sceneggiatore e regista, dell’episodio – è pungente e coglie in pieno l’assurdità delle discriminazioni basate sul colore della pelle: la linea di dialogo simbolo dell’episodio arriva sul finale, quando Robert S. Lee – interpretato da Kevin Samuel, morto appena una settimana prima della messa in onda – dice al ragazzo sull’ambulanza che farsi sparare dalla polizia è quanto di più nero ci possa essere in America.

Atlanta – Stagione 3Per quanto riguarda il percorso dei protagonisti, invece, Atlanta segue una strada meno sperimentale e più simile a quanto aveva fatto nelle scorse stagioni. Gli episodi sono sempre tematici e circoscritti ad alcuni momenti del tour di Paper Boi – come si diceva, pochi show come Atlanta sono capaci di esaltare la componente seriale del racconto – e sono accuratamente scelti per raccontarci come stanno vivendo questa nuova fase della loro vita, fatta di successo e di ambienti molto diversi rispetto alle pericolose strade della loro città. Earn e soci devono ora confrontarsi con la fama e, dunque, entrare in logiche relazionali basate su denaro e notorietà: in “White Fashion” per esempio Al viene invitato ad un tavolo dove ricchi intellettuali e personaggi famosi pensano a dei modi per fare beneficenza per ripulire la propria immagine – con tutta una critica a questo genere di operazioni – mentre in “The Old Man and the Tree” allo stesso modo il rapper gioca e vince una grossa somma di denaro ad un tavolo da poker con un ricco banchiere che però si rifiuta di pagarlo.

Queste nuove situazioni e ambientazioni portano nuova linfa allo show che, sempre con lo stile che lo contraddistingue, si muove in un nuovo mondo popolato però dagli stessi problemi che affliggono la vita delle persone di colore, come possono essere antiche feste tradizionali europee che fanno tranquillamente uso del blackface in “Sinterklaas Is Coming”. Earn, Al e Darius svelano, dunque, un mondo apparentemente moderno e inclusivo ma in realtà, non appena svelato il velo di Maya, ricco di contraddizioni e fortemente diseguale: un mondo in cui il privilegio e la ricchezza si trasformano in strumenti per un’oppressione silenziosa, che in Atlanta vengono raffigurati attraverso il surreale, come per esempio ristoranti stellati super esclusivi che servono mani in pastella ai propri ospiti che mangiano con gli occhi coperti.

Atlanta – Stagione 3Due tra gli episodi più riusciti e interessanti della stagione sono l’ottavo, “New Jazz” e l’ultimo, “Tarrare”. Il primo è incentrato su Alfred e racconta di un trip indotto da droghe in quel di Amsterdam che lo porta ad affrontare un viaggio temporalmente circolare guidato dallo “spirito guida” della madre Lorraine, qui nelle vesti di una giovane donna interpretata da Ava Grey. Il viaggio è un’occasione per Al per pensare alla sua carriera e alla sua musica, oltre che portarlo a riflettere sui suoi punti fermi dopo il suo grande successo: può ancora fare affidamento su Earn e Darius? Come è cambiata la sua vita adesso?
Necessario menzionare l’inaspettato cameo di Liam Neeson che interpreta se stesso: il suo personaggio e la linea di dialogo nell’episodio fanno riferimento ad un fatto davvero accaduto nella sua vita e del quale l’attore si vergogna profondamente. Circa quarant’anni fa, infatti, una sua amica è stata aggredita e violentata da un uomo di colore; nei mesi successivi l’uomo provò una fortissima rabbia verso chiunque avesse la pelle scura.

Anche “Tarrare” contiene un cameo illustre: Alexander Skarsgaard (True Blood, Big Little Lies) interpreta, infatti, se stesso e si dipinge come un depravato sessuale con un auto-ironia davvero esilarante. L’episodio è però incentrato su Van e sulla sua nuova vita a Parigi: il racconto è veicolato attraverso lo sguardo di Candice (Adriyan Rae) che segue l’amica nelle sue bizzarre avventure e cerca di comprendere come la ragazza che conosceva ad Atlanta è diventata quella che è ora. Anche in questo caso sopraggiungono elementi stranianti e totalmente folli, uno fra tutti il pestaggio di Emilio con una baguette, e bisogna sottolineare una performance straordinaria di Zazie Beetz che, soprattutto nella scena del rinsavimento finale, riesce a veicolare perfettamente il mal de vivre che affligge il suo personaggio.

Non è semplice dare un giudizio a questa terza stagione di Atlanta, da un lato perché si configura come la prima parte di un dittico – la quarta stagione, si diceva, è stata scritta e girata insieme e andrà in onda presumibilmente durante l’autunno di quest’anno – e dall’altro perché i tanti episodi standalone la rendono molto variegata al suo interno e poco coesa. In linea di massimo la qualità della scrittura e l’ottimo comparto tecnico – a partire dal regista della maggior parte degli episodi, Hiro Murai – continuano a regalarci un prodotto di altissimo livello, forse meno di impatto delle scorse stagioni e con meno picchi ma certamente uno degli show più rilevanti e folli di questa era televisiva.

Voto: 8 ½

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Informazioni su Davide Tuccella

Tutto quello che c'è da sapere su di lui sta nella frase: "Man of science, Man of Faith". Ed è per risolvere questo dubbio d'identità che divora storie su storie: da libri e fumetti a serie tv e film.


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Un commento su “Atlanta – Stagione 3

  • Boba Fett

    Pur senza episodi WOW! Glover riesce sempre a stupire con il suo modo intelligentemente distaccato di raccontare le discriminazioni da ogni punto di vista possibile. E in questa terza stagione lo fa con uno stile sperimentale, tanto che alcuni episodi sono, secondo me, degli autentici corti autorali. È vero, non c’è un Teddy Perkins, ma diverse immagini fortemente iconografiche, come quel ristorante elegante con solo clienti neri e camerieri bianchi (nel mio short film preferito!), non ne fanno certo sentire la mancanza.